“Allora Pilato gli disse: «Ma dunque, sei tu re?». Gesù rispose: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». Pilato gli disse: «Che cos’è verità?»” (Gv 18:37-38).
È utile parlare di verità?
Il pretorio di un governatore romano, con la folla fuori che rumoreggia e le autorità religiose che chiedono la condanna a morte di un loro connazionale, non sembra essere il luogo adatto per un’ordinata e pacata discussione sulla verità. Così almeno potrebbe sembrare a noi, che dagli anni passati a scuola abbiamo forse ereditato l’impressione che discutere sul tema della verità sia un’esercitazione intellettuale da lasciare a persone che hanno tempo e voglia di farlo o, al massimo, da riservare a momenti particolarmente tranquilli della nostra vita.
Di verità invece bisogna parlare, e bisogna parlarne come ne parla la Scrittura, perché è tutt’altro che un argomento ozioso. Oggi si preferisce parlare d’amore, perché nell’opinione corrente l’amore unisce, mentre la verità divide. Salvo poi a scoprire, davanti a un tribunale, che l’amore di cui tanto si parlava non era vero amore. La disprezzata verità entra allora in scena e a questo punto si rivela utile, perché viene impugnata come un randello per bastonare l’altro con il lungo elenco dei suoi veri torti.
Dopo di che intervengono i professionisti del soccorso psicologico, i quali spiegano ai contendenti che nelle disturbate relazioni interpersonali l’elemento che più di altri contribuisce a peggiorare la situazione è proprio il riferimento alla verità.
“Il fatto di introdurre dei concetti «vero o falso», «bugia o verità», immette all’interno di qualsiasi relazione un elemento molto negativo e fastidioso; nel caso della relazione di aiuto, dove uno è un professionista e l’altro è la persona che chiede aiuto, la situazione diventa veramente molto grave” (Autori vari, Verità e rappresentazione, CUEN, Napoli 1997, p.12).
Chi si richiama alla verità è un “dogmatico” – secondo questa visione – e il suo dogmatismo lo rende rigido, intollerante, tendenzialmente violento, perché convinto di potersi e doversi riferire a una realtà esterna, oggettiva, al di sopra delle parti. Ma per alcuni questo non è possibile, e quindi lo stesso professionista deve stare ben attento a non assumere l’atteggiamento dogmatico di chi pensa di avere una verità da trasmettere alla persona che sta curando, perché è proprio il dogmatismo la malattia più grave da cui il paziente deve essere guarito.
“In realtà noi non possiamo passare al paziente niente di nostro, possiamo solo aiutarlo a trasformarsi da dogmatico in scettico” (Ivi, p. 20).
Conseguenza inevitabile e disastrosa del dogmatismo è il moralismo, con il quale si vorrebbe dire ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
“Il rischio più grave è il tentativo di «moralizzare»: in un rapporto di aiuto non deve infatti esistere nessun tipo di giudizio di valore”.
“Tutte le volte che si dice «devi», «bisogna», «si deve», «ma come si fa a non capire che...», tutte le volte che si introducono elementi di questo tipo si introduce un giudizio di valore, un giudizio morale. In una relazione di aiuto questo è disastroso. La gente non desidera essere giudicata, e men che meno desidera essere duramente castigata. Quasi sempre si è già data da sola dei giudizi di valore, e in ogni caso non viene a cercare aiuto perché qualcuno alzi il dito e gli dica cosa dovrebbe fare” (Ivi, p. 16).
Dogmatici intransigenti e scettici tolleranti
Dogmatismo e moralismo sarebbero dunque conseguenze inevitabili e nocive del richiamo ad una verità assoluta, immutabile nel tempo e universale nello spazio.
Convinzioni di questo tipo sono correnti non solo nell’ambito della cura psicologica della persona, ma anche nella sfera delle relazioni politiche. Un esempio eloquente è dato dall’attuale crisi mediorientale. Due popoli, gli ebrei e gli arabi, rischiano di provocare una carneficina mondiale perché entrambi si riferiscono ad una verità religiosa assoluta e immutabile che li obbliga a rivendicare per sé il medesimo pezzo di terra. Il loro dogmatismo intransigente, basato sulla pretesa di sapere con certezza assoluta a chi Dio ha dato quella terra, li spinge alla violenza. Se qualcuno potesse guarirli dal loro dogmatismo e riuscisse a trasformarli in scettici tolleranti molti guai potrebbero essere evitati. Così pensano alcuni, anche tra gli ebrei e gli arabi “illuminati”.
La domanda “Che cos’è verità?” è quindi tutt’altro che l’esercitazione oziosa di una mente troppo filosofica. Alcuni sostengono che nel mondo biblico-ebraico il termine “verità” ha una connotazione più morale che conoscitiva. In parte questo può essere vero. Nella Bibbia infatti il contrario di verità non è “errore”, ma “menzogna”, con tutti gli aspetti di colpevolezza che questo termine implica. Gesù parlò di verità quando disse ai Giudei: “Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8:31-32). E nominando il diavolo come colui che si oppone alla verità disse: “Egli è stato omicida fin dal principio e non si è attenuto alla verità, perché non c’è verità in lui. Quando dice il falso, parla di quel che è suo perché è bugiardo e padre della menzogna” (Gv 8:44).
Ma non bisogna credere che il tema della verità possa esaurirsi in una discussione sui corretti comportamenti che popoli e persone dovrebbero tenere per assicurare a tutti una pacifica e civile convivenza. Questo è ciò che pensano gli scettici laici del nostro tempo, che intimamente si compiacciono del loro pragmatismo utilitarista e considerano le cosiddette verità religiose assolute come moleste pastoie che possono essere benevolmente sopportate fino a che si presentano in forma di folcloristici costumi locali, ma che devono essere fermamente combattute quando minacciano la tranquillità della vita sociale.
La natura personale-giuridica della verità
La verità di cui parla la Bibbia ha un carattere che si potrebbe dire personale-giuridico. Non risponde in primo luogo alla domanda “che cosa?” (atteggiamento teoretico) o alla domanda “come?” (atteggiamento utilitaristico-morale), ma a domande del tipo: “Chi?”, “Chi è?”; e subito dopo: “Che cosa ha detto?”, “Che cosa ha fatto?”, “Che cosa vuole?”. È in risposta a domande come queste che si pone il problema della verità e della menzogna. I popoli antichi non mettevano in dubbio che ci fossero degli dèi, cioè delle potenze celesti che avevano potere sugli uomini e sulla terra, ma la domanda era: “Chi è il più forte?”, “Chi comanda?”. “Chi bisogna ingraziarsi?”. La Scrittura risponde che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è l’unico che “nel principio” “creò i cieli e la terra” (Ge 1:1), e di conseguenza “gli dèi che non hanno fatto i cieli e la terra scompariranno dalla terra e da sotto il cielo” (Ge 10:11). Questa è la verità e chi dice il contrario mente.
Ma questo Dio, che è l’unico Creatore dei cieli e della terra, ha parlato e tuttora parla. Sorgono allora altre domande: “A chi ha parlato?”, “Che cosa ha detto?” “Che cosa dice?” La verità si trova nella risposta a queste domande, perché la verità è, per definizione, quello che il Creatore del cielo e della terra dice, cioè la Sua Parola. Chi non accetta questa parola e ne diffonde un’altra si trova automaticamente fuori dalla verità, e non è soltanto qualcuno che sbaglia in buona fede, ma è un bugiardo.
Il problema della verità si pone dunque in relazione alla Persona di “Colui che parla” (Eb 12:25) (“Chi è?”) e al contenuto della sua Parola (“Che cosa ha detto?”).
Cominciò per primo il serpente, nel giardino di Eden, a fare domande intorno alla verità quando chiese alla donna: “Come! Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?” (Ge 3:1). Ecco il problema: “Che cosa ha detto Dio?” E qui fa il suo ingresso nel mondo il contrario della verità, cioè la menzogna. “No, non morirete affatto” (Ge 3:4), disse il serpente, e si rivelò come “bugiardo e padre della menzogna” (Gv 8:44).
Il problema della verità fu posto ancora dal faraone d’Egitto in un contesto tutt’altro che filosofico. A Mosè ed Aaronne che gli comunicavano: “Così dice il Signore, il Dio d’Israele: «Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto»”, il faraone rispose con durezza: “Chi è il Signore che io debba ubbidire alla sua voce e lasciare andare Israele? Io non conosco il Signore e non lascerò affatto andare Israele” (Es 5:1-2), e concluse negando la verità delle parole udite dicendo: “Questa gente sia caricata di lavoro e si occupi di quello, senza badare a parole bugiarde” (Es 5:9).
La verità si è manifestata agli uomini
Il problema della verità si è presentato al mondo, insieme con la sua soluzione, in modo decisivo e definitivo quando “la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità” (Gv 1:14). A un certo punto del suo ministero Gesù chiese ai discepoli: “Chi dice la gente che sia il Figlio dell’uomo?” ed essi risposero: “Alcuni dicono Giovanni il battista; altri, Elia; altri, Geremia o uno dei profeti”. E allora rivolse loro direttamente la domanda: “E voi, chi dite che io sia?”. Conosciamo la risposta di Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16:13-16).
La verità dunque è apparsa agli uomini nella Parola di Dio fatta carne, e davanti alla domanda: “Chi è Gesù?”, Simon Pietro, per rivelazione del “Padre che è nei cieli”, rispose secondo verità. Si potrebbe dire, usando un linguaggio attuale, che Pietro fece una corretta “confessione di fede”. Non sembra però che questo sia stato sufficiente per fare di lui un fedele seguace di Gesù.
Usando le parole del faraone, si potrebbe dire che Pietro, dopo aver riconosciuto chi è Gesù, si rifiutò di ubbidire alla sua voce. Nell’episodio della trasfigurazione il Padre rese testimonianza a Gesù dicendo: “Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo” (Mt 17:5). Non basta dire la verità su chi è Gesù; bisogna anche ascoltarlo, cioè agire in modo conforme alla verità della Sua parola. Dopo aver riconosciuto chi è Gesù, Pietro avrebbe dovuto “camminare nella verità” (2 Gv 1:4) ascoltando le parole di Colui che aveva riconosciuto come Messia e Figlio del Dio vivente. Invece da quel momento cominciò a contrastare ripetutamente le parole di Gesù, mostrando di essere piuttosto all’ascolto dei suggerimenti di Satana, il padre della menzogna, fino al punto di farsi suo portavoce presso Gesù. Questo conferma che si può “professare di conoscere Dio” e “rinnegarlo con i fatti” (Tt 1:16). Pietro sfuggì alla tentazione di Satana soltanto quando riconobbe, con umiliazione, la verità delle parole di Gesù: “Prima che il gallo abbia cantato due volte, tu mi rinnegherai tre volte” (Mr 14:72).
Il problema della verità si presentò a Pilato, in una forma chiaramente personale-giuridica, quando gli misero davanti quel Rabbì giudeo di controversa fama. In qualità di magistrato romano, Pilato doveva prendere le sue decisioni sulla base di risposte a domande come: “Chi è Gesù?”, “Che cosa ha detto?”, “Che cosa ha fatto?”, “Che cosa vuole?” Si stava svolgendo un processo, sia pure sommario, e l’aula di un tribunale è la sede adatta per discutere il problema della verità. Tutte le persone coinvolte sono tenute a dire o a riconoscere la verità; dopo di che si esegue la sentenza.
Nel processo di Gesù la verità fu ripetutamente calpestata da diversi falsi testimoni, ma non fu questo che fece condannare il Signore Gesù: la Sua morte non fu la conseguenza di un errore giudiziario. Alle domande: “Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?“ (Mr 14:61), “Sei tu il re dei Giudei?” (Mr 15:2) Gesù rispose con verità, dicendo che era venuto nel mondo “per testimoniare della verità” (Gv 18:37). E per questo fu condannato. Non furono le menzogne dei falsi testimoni a provocare la morte di Gesù, ma la verità uscita dalla Sua bocca.
Questo conferma la natura personale-giuridica della verità, che viene contrastata non dall’errore teoretico-scientifico, ma dalla menzogna che provoca ingiustizia. Se Dio ha parlato e attraverso la Sacra Scrittura da Lui ispirata ha rivelato agli uomini la verità intorno a fatti storici, naturali, morali, chi si oppone alla Sua rivelazione in nome di qualche altra autorità non è un onesto ricercatore che vuole stabilire il reale svolgersi dei fatti o un sincero pensatore che vuole comprendere il mutare dei costumi, ma è un bugiardo, un falso testimone che sostituisce la parola di verità proveniente da Dio con la parola di menzogna proveniente da uomini. Un giorno la verità sarà ristabilita, e a questo non seguirà la pubblicazione di un articolo su qualche rivista scientifica o teologica, ma la verbalizzazione di una sentenza pronunciata dalla giuria di un tribunale. Gli uomini non sanno che con le loro dissertazioni culturali e morali riempiono verbali che un giorno saranno letti, esaminati e valutati. E il tutto si concluderà con una sentenza definitiva a cui non si potrà interporre appello.
La verità soffocata dall’ingiustizia
Ma oggi, nel tempo della pazienza di Dio, le parti si presentano invertite. Spesso, come nel caso di Gesù davanti a Pilato, è la verità ad essere posta sotto accusa da qualche tribunale umano. Ma le sedi giuridiche in cui gli uomini tentano di soffocare la verità con l’ingiustizia sono anche i luoghi in cui Dio vuole che i suoi servitori siano testimoni della verità, avendo la promessa di una particolare assistenza da parte dello Spirito Santo (Mr 13.9-11). “Dare la propria testimonianza” significa essere testimoni di Gesù Cristo, non di sé stessi, ed è bene ricordare che il termine “testimone” appartiene al linguaggio giuridico dei tribunali, non a quello artistico dei teatri. Alle testimonianze segue una sentenza, non un applauso.
Eppure Pilato non voleva condannare Gesù. Da buon cittadino romano era attento soprattutto alle questioni di potere; quanto alle cose religiose poteva essere considerato uno scettico tollerante. Fosse stato per lui, Gesù avrebbe potuto essere liberato. In bocca sua la frase “Che cos’è verità?” forse significava: “Piantiamola una buona volta con tutte queste beghe intorno alla verità e cerchiamo di essere persone pratiche e di buon senso”. Ma il fanatismo religioso dei Giudei e l’insistenza con cui Gesù continuava a presentarsi come testimone della verità gli avevano reso impossibile resistere alla pressione delle autorità religiose e della folla, pena il rischio di essere denunciato come nemico di Cesare. Non era certo un pacifista integrale, Pilato, ma in quel caso la violenza gli sembrava proprio inutile. Non voleva crocifiggere Gesù e avrebbe potuto non farlo. E tuttavia lo fece. Perché? Quale forza glielo impose?
Erode e Pilato divennero amici dopo la condanna di Gesù (Lu 23.12), forse perché le loro storie avevano qualcosa in comune. Entrambi erano stati spinti a uccidere qualcuno contro la loro volontà. Erode non avrebbe voluto uccidere Giovanni Battista e Pilato non avrebbe voluto uccidere Gesù, ma entrambi lo fecero perché non vollero ascoltare la voce della verità che li spingeva ad agire secondo giustizia. Di conseguenza furono costretti a praticare l’ingiustizia soffocando la verità (Ro 1:18). Gesù aveva detto: “Per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (Gv 18:37). Davanti alla verità che gli stava davanti nella persona e nelle parole di Gesù, Pilato aveva voluto rimanere in una posizione neutrale, distaccata, e di fatto era caduto sotto il potere della menzogna. Non aveva capito in che senso Gesù si proclamava re dei Giudei, ma certamente aveva capito che glielo avevano consegnato “per invidia” (Mr 15.18) e che i suoi accusatori mentivano. Ma invece di mettersi decisamente dalla parte della verità liberando Gesù e castigando i testimoni bugiardi (De 19.16-19), Pilato aveva cercato un compromesso con la menzogna: non lo avrebbe ucciso e non lo avrebbe assolto, si sarebbe limitato a farlo flagellare. Ma il suo tentativo di rimanere equidistante dagli “opposti estremismi” di coloro che forse considerava come fanatici religiosi non gli riuscì: poiché non era interessato alla verità ma al potere, fu costretto da colui che è il “padre della menzogna” (Gv 8.44) a usare il potere per soffocare la verità con l’ingiustizia.
Da che parte viene la violenza?
È dunque violenta la verità? Viene inevitabilmente spinto alla violenza chi vuole attenersi alla verità? Nel processo di Gesù chi ha finito per usare violenza?
Non è la verità che genera violenza, ma la menzogna, sia quando assume la forma dogmatica della contrapposizione frontale alla verità in nome di un’altra “verità” con la quale si vogliono difendere interessi inconfessabili, come hanno fatto i Giudei con Gesù, sia quando assume la forma dello scetticismo tollerante che mira a dissolvere il concetto stesso di verità per sostituirlo con un nebuloso e bonario pragmatismo che qualcuno vorrebbe chiamare “amore”, mentre in realtà è soltanto voglia di potere, come mostra l’esempio di Pilato.
Chi non “è dalla verità” (Gv 18:37) non si trova sul terreno di una pacifica neutralità ma su quello della violenta menzogna, che può essere religiosamente dogmatica o laicamente scettica. Se in altri tempi (medioevo “cristiano”) e in altre culture (islam) la menzogna ha usato e usa ancora la violenza brandendo l’arma di una verità distorta, nel nostro tempo e nella nostra cultura postmoderna la menzogna sta producendo germi di violenza che si sviluppano sulla carcassa di una verità dissolta. Osservatori attenti, anche tra i non cristiani, da tempo avvertono che il vuoto prodotto dall’abbandono del riferimento ad una verità assoluta sarà prima o poi colmato dall’assunzione di un potere assoluto. Il clima “dolce” promosso e diffuso dalla New Age si presta bene a disgregare, insieme con la verità, anche la personalità degli individui e a renderli adatti per essere asserviti a un potere tirannico.
“Se un giorno sorgerà un governo mondiale, avrà sicuramente bisogno di un’ideologia per legittimarsi e vi sono buone possibilità che la New Age possa rappresentare questa ideologia. Possiamo sorridere a questa idea e pensare che quel giorno è ancora lontano. Conviene però fare molta attenzione, perché questi fantasmi planetari non sono solo innocenti fantasie... La nostra ipotesi è che la New Age stia per varare una nuova forma di totalitarismo.” (Michel Lacroix, L’ideologia della New Age, Il Saggiatore, Milano 1998, p.85).
È un’ipotesi che non dovrebbe sembrare strana a noi cristiani. Non dice forse la Scrittura che un giorno farà la sua comparsa in scena “l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra tutto ciò che è chiamato Dio od oggetto di culto; fino al punto da porsi a sedere nel tempio di Dio, mostrando sé stesso e proclamandosi Dio” (2Te 2:3-4)?
Gesù, che è la verità e davanti a Pilato ha testimoniato della verità, non ha usato violenza, ma l’ha subita. La verità di Dio porta amore, non violenza; ma chi resiste all’amore di Dio si oppone alla verità con la forza della menzogna, ed è questa che genera violenza. Chi vuole comunicare agli uomini la verità dell’amore di Dio, manifestatosi nella persona del Signore Gesù, deve essere pronto a subire violenza, non a farla.
Il compito di chi annuncia il Vangelo
È necessario allora che gli annunciatori del Vangelo abbiano la franchezza di dire sempre che la verità è una sola. Non è sufficiente che io dica: “Gesù è il mio Signore e il mio Salvatore”, perché alle orecchie di molti questo significa che ho voluto comunicare loro la mia verità, quella mi ha soddisfatto e reso felice. Di questo tutti sono disposti a rallegrarsi, come quando mi sentono dire con orgoglio, mentre sollevo un bambino di pochi mesi: “Questo è mio figlio”. Ma guai a me se poi aggiungo che “c’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo” (1Ti 2:5) e che “in nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati” (At 4:12). Questo può dare fastidio e provocare stizzite reazioni, che un giorno potrebbero anche portare a forme di repressione.
Ma proprio per questo coloro che vogliono annunciare agli altri l’unica buona notizia che può salvare gli uomini dall’eterna perdizione, e vogliono farlo in modo onesto e credibile, devono mantenersi in una posizione di umana debolezza, che può anche significare essere fraintesi e disprezzati. Devono essere disposti a patire torti, non cercare di ottenere privilegi. In un mondo dominato dalle informazioni, questo può anche significare la rinuncia a curare premurosamente la propria immagine pubblica. Voler attirare troppo l’attenzione sulla propria “identità” rivela soltanto il desiderio di avere un piedistallo su cui salire per essere approvati e ammirati. Si comincia col dire che si sale per predicare meglio la verità e si finisce con il rimanerci perché si sta più comodi. E una volta che si è preso gusto alla comodità, anche la verità comincia ad essere guardata con altri occhi. Il “buon deposito” resta tale, ma nell’annuncio si comincia a selezionarne i contenuti, accantonando quelli “secondari” e “negativi” per sottolineare quelli “fondamentali” e “positivi”, che spesso sono anche quelli che non provocano noie e consentono di rimanere sul piedistallo.
Il testimone è chiamato a dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. La verità che annuncia è una realtà d’amore che porta la vita agli uomini, ma il testimone fedele sa che potrebbe incontrare la reazione d’odio della morte. In quel caso non reagirà con violenza, ma sarà disposto a subire violenza, sapendo che anche questo darà forza alla verità del messaggio di Gesù Cristo, morto in croce per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione.
“... portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo; infatti, noi che viviamo siamo sempre esposti alla morte per amor di Gesù, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Di modo che la morte opera in noi, ma la vita in voi” (2Co 4:10-12).