Lamentazioni di Geremia 3:22 a 33
Le lamentazioni di Geremia sono l’espressione del dolore e dell’umiliazione di un uomo fedele che, pieno d’amore per il popolo di Dio, ne considera la rovina e la sofferenza.
Giuda e Gerusalemme erano nella prova, perché avevano abbandonato l’Eterno, sorgente delle acque vive, per scavarsi cisterne screpolate (Geremia 2:13). Anche a noi oggi può capitare la stessa cosa, anche se l'agire di Dio Padre nei nostri confronti, quando ci deve riprendere, non riveste la stessa forma che vediamo nell'Antico Testamento riguardo Giuda e Gerusalemme.
Il profeta Geremia piangeva a causa della rovina della figlia del suo popolo (Lamentazioni 2:11) e anche l’apostolo Paolo era assillato ogni giorno dalle preoccupazioni che gli venivano da tutte le chiese (2 Corinzi 11:28). Era un gran lavoro il suo: sopportare le infermità dei deboli, prestare continuamente attenzione ai lamenti di quelli che si sentono offesi, correggere gli errori di alcuni, combattere per la verità contro falsi fratelli; dev'essere stata un'esperienza sfibrante.
Come non provare anche noi tristezza e umiliazione a causa dello stato di rovina della cristianità e della debolezza della Chiesa?
Afflizioni, amarezza, esilio (3:1-20)
Il capitolo centrale del libro è e quello in cui il profeta esprime il suo dolore con maggior intensità (*).
Le sue sofferenze fisiche e soprattutto morali sono il motivo del primo terzo di questo capitolo 3. "Io sono l'uomo che ha visto l'afflizione sotto la verga del suo furore...Contro di me, di nuovo, volge la sua mano... Anche quando grido e chiamo aiuto Egli chiude l'accesso alla mia preghiera (vedere Salmo 22:2)".
Dio s’è servito delle esperienze del profeta per farci un poco comprendere quanto grandi siano state le sofferenze di Cristo e la sua angoscia. In questi versetti, come in tanti altri passi profetici, Dio ci fa avvicinare, sebbene nella nostra misura limitata, a questo mistero insondabile, per farci anche afferrare maggiormente la grandezza e la perfezione del nostro Salvatore e della sua opera, di lui "che ci ama, e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue" (Apocalisse 1:6).
Ma questi versetti, a parte il loro aspetto profetico, possono essere applicati alle sofferenze di qualunque persona pia, in ogni tempo. Quanto è prezioso allora, nel momento più profondo dell'angoscia, quando l’anima è abbattuta al ricordo delle prove, ricordarsi della bontà del Signore e delle sue compassioni. "
Le bontà dell’Eterno (v. 22-24)
I versetti da 22 a 33 si trovano al centro stesso del libro. Possiamo dire che ne sono il cuore, perché parlano della bontà di Dio, delle sue compassioni, della sua fedeltà.. "Le sue compassioni non sono esaurite, si rinnovano ogni mattina. Grande è la tua fedeltà... Il Signore è buono con quelli che sperano in lui" (v. 23-25).
Geremia confessava lo stato di rovina e d’infedeltà del suo popolo e soffriva a causa del disonore che ne veniva al nome dell’Eterno. Perché allora questo popolo non era stato distrutto? Il profeta afflitto ha trovato la risposta nel cuore di Dio: "E' una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti" (v. 22); questo lui voleva richiamare alla sua mente, questo lo faceva sperare (v. 21). Dio interviene sempre con le sue inesauribili compassioni verso i suoi che gridano a lui per avere soccorso, e lo fa in grazia.
Questa sarà anche l'esperienza del rimanente fedele d'Israele al tempo della fine, durante la grande
tribolazione. "La bontà dell’Eterno è senza fine per quelli che lo temono” (Salmo 103:17).
Che cosa ci rimane, nei tempi difficili che stiamo attraversando, se non l'amore e le compassioni del nostro Padre? Davide diceva: “Al mattino ti offro la mia preghiera e attendo” (Salmo 5:3).
In seguito Geremia dice che la sorgente della sua speranza è nel Signore: “L’Eterno è la mia parte”. Era anche quella del salmista e del Signore Gesù quand'era uomo quaggiù: "L’Eterno è la mia parte di eredità e il mio calice" (Salmo 16:5). Se nel nostro cammino dobbiamo attraversare la valle di Baca – valle dei pianti (Salmo 84:5-6) – Dio ci dà sempre motivo di lodarlo. Quelli che trovano in lui la loro forza, che hanno a cuore le vie del santuario, "la trasformano in luogo di fonti e la pioggia d'autunno la ricopre di benedizioni".
Aspettare in silenzio (v. 25)
Il profeta può ora parlarci di una cosa buona: Aspettare in silenzio la salvezza dell’Eterno. Giacomo scrive: "Ecco, noi definiamo felici quelli che hanno sofferto pazientemente" (5:11). Ma l’attesa paziente e fiduciosa non è una rassegnazione passiva. Se siamo sottoposti ad una prova della nostra fede, questo fa parte delle vie di Dio riguardo ai suoi. Dio desidera che la costanza nella prova "compia pienamente l'opera sua", affinché siamo "perfetti e completi, di nulla mancanti" (1:4). E in questo abbiamo bisogno di quella "saggezza che scende dall'alto", qualità è indispensabile per essere preservati da ogni azione affrettata e incompatibile con la pazienza della fede.
Anche il silenzio di cui parla Geremia (3:26) va di pari passo col sentimento di essere sotto la disciplina del Signore. Il fedele, nella prova, cerca il Signore e davanti a lui espone la sua preghiera umilmente, come a bassa voce (Isaia 26:16). Quanti turbamenti si eviterebbero nelle assemblee se sapessimo esporre solo al Signore, "in segreto", gli esercizi dei nostri cuori e le sofferenze che proviamo! Avremmo aspettato con pazienza la liberazione del Signore, invece di ritardarla con la nostra agitazione.
Il Residuo giudeo, un giorno, davanti all’apostasia ed alla potenza spiegata da Satana, si volgerà a Colui che è la salvezza e dirà, secondo l’espressione profetica di Giacobbe: "Io aspetto la tua salvezza, o Eterno!" (Genesi 49:18). Oggi la nostra risorsa consiste nell’esporre le nostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti.
E’ bene per l’uomo portare il giogo nella sua giovinezza (v. 27).
Pensiamo a Samuele e a Timoteo (1 Sam. 2:11, 18, 26; 2 Tim. 3:14, 15). Il loro esempio ci fa vedere che il giogo del Signore consiste nell’imparare da lui, nell’ascoltare e serbare la sua Parola, nel sottomettersi alla sua volontà. Consiste nel camminare al suo fianco, al suo passo, percorrendo il suo stesso sentiero. E questo, possiamo aggiungere con l'Ecclesiaste, "prima che vengano i cattivi giorni e giungano gli anni dei quali dirai: Io non ci ho più alcun piacere” (12:1, 3).
"Se affligge ha pure compassione, secondo la sua immensa bontà" (v. 32)
E’ l’ultima menzione della bontà del Signore in questo capitolo. Siamo consolati nel sentir dire dal profeta: "Non è volentieri che egli umilia e affligge i figli dell'uomo" (v. 33). "E’ stato un bene per me l’afflizione subita", dice il salmista (Salmo 119:71, 75), riconoscendo la saggezza e bontà di Dio nell’esercizio di una disciplina che è, al presente, un motivo di tristezza, ma che produce poi "un frutto di pace e di giustizia in coloro che sono stati addestrati per mezzo di essa" (Ebrei 12:11),
"Il nostro Dio… compia con potenza ogni vostro buon desiderio e l’opera della vostra fede, in modo che il nome del nostro Signor Gesù sia glorificato in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo” (2 Tess. 1:11, 12).
J.P. Fuzier