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mercoledì 16 ottobre 2024

Come Dio tiene conto dell’umiliazione

Di quattro re di Giuda e d’Israele la Parola dice che si umiliarono; sono Roboamo, Acab, Ezechia e Manasse. Le circostanze in cui si trovarono sono molto diverse, ma in tutti i casi Dio ha tenuto conto della loro umiliazione. 


L’umiliazione di Roboamo

2 Cronache 12:5-8

Roboamo, primo discendente del re Salomone, era stato l’artefice della divisione del regno d’Israele. La sua durezza e il suo orgoglio erano stati la causa diretta di quella rovina, che peraltro, Dio aveva già preannunciato come giudizio sulla condotta di Salomone. 

Dopo le tensioni che avevano contrassegnato l’inizio del suo regno e un periodo di tre anni che sembrava promettessero bene (11:17), Roboamo “e tutto Israele con lui, abbandonò la legge del Signore” (12:1). Allora Dio mandò contro di loro il re d’Egitto con un potente esercito. Le città forti di Giuda vennero conquistate, e Roboamo e i suoi capi si rifugiarono nella città di Gerusalemme. Proprio lì il profeta Semaia va a trovarlo e fa una breve e solenne analisi della situazione: “Così dice il Signore: Voi avete abbandonato me, quindi anch’io ho abbandonato voi nelle mani di Sisac” (v. 5).

Ci sorprende che Roboamo non mostri indifferenza e non metta a tacere il profeta, come invece faranno altri; “i principi d’Israele e il re si umiliarono, e dissero: Il Signore è giusto” (v. 6). Non è facile dire: “Il Signore è giusto” quando si è sotto il suo castigo, perché la nostra tendenza è piuttosto quella di cercare di giustificarci.

Tuttavia, se è vero che agli occhi di Dio non sfugge alcuna mancanza, è anche vero che non gli sfuggono le cose buone. Infatti, “quando il Signore vide che si erano umiliati”, dice: “Io non li distruggerò, ma concederò loro fra poco un mezzo di scampo, e la mia ira non si rovescerà su Gerusalemme per mezzo di Sisac. Tuttavia gli saranno soggetti” (v. 7, 8).

Si può pensare che il pentimento di Roboamo non sia stato molto profondo, poiché il racconto della sua vita termina con questa triste conclusione: “Egli fece il male, perché non applicò il suo cuore alla ricerca del Signore” (v. 14). Tuttavia, un’umiliazione c’è stata, e Dio ne ha tenuto conto. Il giudizio è attenuato: “Concederò loro fra poco un mezzo di scampo” (v. 7).


L’umiliazione di Acab

1 Re 21:27-28

“In verità non c’è mai stato nessuno che, come Acab, si sia venduto a fare ciò che è male agli occhi del Signore, perché era istigato da sua moglie Izebel” (v. 25).

Triste storia quella di Acab, così come ci è raccontata nei capitoli da 17 a 22 del primo libro dei Re! Essa è strettamente legata a quella del profeta Elia, suscitato da Dio in quel periodo di tenebre e di apostasia, per cercare di ricondurre a lui il popolo d’Israele. Più di una volta Acab è messo in rapporto con Dio; egli ode i suoi avvertimenti, vede lo spiegamento della sua potenza e della sua grazia, ma il suo cuore è indurito. Nel cap. 21, si impossessa con la violenza della vigna di Nabot, lapidato su ordine di Izebel per essersi rifiutato di darla al re, dopo un processo iniquo che doveva avere l’apparenza di difendere gli interessi di Dio.

Proprio nel momento in cui Acab va ad impadronirsi dei quel terreno che ha desiderato e ottenuto, Elia lo incontra e gli comunica un severo messaggio da parte di Dio: “Nello stesso luogo dove i cani hanno leccato il sangue di Nabot, leccheranno anche il tuo”; e ancora: “Ecco, io ti farò cadere addosso una sciagura, ti spazzerò via, e sterminerò ogni uomo della tua casa… Quelli di Acab che moriranno in città saranno divorati dai cani, e quelli che moriranno nei campi saranno divorati dagli uccelli del cielo” (v. 19, 21, 24).

Allora, cosa inaspettata, il re si piega davanti all’annuncio del giudizio divino: “Quando Acab udì queste parole, si stracciò le vesti, si coprì con un sacco, e digiunò; dormiva avvolto nel sacco e camminava a passo lento” (v. 27). Questo atto avrà un seguito? Ci sarà un comportamento che dimostri un vero pentimento? Purtroppo no! Al cap. 22 è di nuovo lui che perseguita il profeta dell’Eterno, e Dio lo fa perire per mezzo di una freccia scoccata a caso, che si conficcò in un punto debole della sua corazza. Il timore del giudizio, per un momento, sembrava avesse prodotto la conversione di quell’uomo, ma Satana seppe avviluppare la sua preda e cancellare l’effetto della Parola di Dio. 

Ma ciò che ci colpisce in questo racconto è che Dio, che comunque conosce ogni cosa in anticipo, non fu indifferente all’umiliazione di Acab, sebbene momentanea e superficiale; Dio ne tenne conto e dice al profeta Elia: “Hai visto come Acab si è umiliato davanti a me?” E Dio rimanda a più tardi l’esecuzione del giudizio: “Poiché egli si è umiliato davanti a me, io non farò venire la sciagura mentre egli è ancora vivo”. La grazia di Dio supera di molto i nostri pensieri e le nostre aspettative!


L’umiliazione di Ezechia

2 Cronache 32:24-26

La Scrittura ci riporta una sola mancanza di questo re fedele. Verso la fine di una vita contraddistinta dalla devozione all’Eterno e dalla fiducia in Lui, in mezzo alle prove più dure, Ezechia dovette imparare ciò che vi era nel proprio cuore. “Dio lo abbandonò, per metterlo alla prova e conoscere tutto quello che egli aveva in cuore” (2 Cronache 32:31). Durante la visita degli ambasciatori di Babilonia, egli fu lusingato di essere onorato dai grandi di questo mondo, e cercò di mettersi al loro livello mostrando loro tutti i suoi tesori. Dio riassume il suo comportamento con queste parole: “Il suo cuore s’inorgoglì” (v. 25). Questo era particolarmente grave in un uomo di cui può essere detto che aveva trascorso la sua vita con Dio. Tutto ciò che la grazia di Dio aveva prodotto nel suo cuore, lo rendevano molto responsabile.

Così, Dio gli mandò il profeta Isaia per aprirgli gli occhi sull’errore commesso e annunciargli che tutti i tesori di cui andava fiero sarebbero stati ben presto trasportati nei palazzi di Babilonia, come pure alcuni dei suoi discendenti. Il libro dei Re e quello di Isaia ci raccontano la reazione di Ezechia a questo triste annuncio: “La parola del Signore che tu hai pronunziata, è buona” (2 Re 20:19; Isaia 39:8). Se avessimo solo questi due libri, potremmo pensare che il re fosse contento che il giudizio di Dio sarebbe avvenuto dopo la sua morte, tanto che dice: “Sì, se almeno vi sarà pace e sicurezza durante la mia vita”. Ma il libro delle Cronache ci dice chiaramente: “Ezechia si umiliò dell’essersi inorgoglito in cuor suo: tanto egli, quanto gli abitanti di Gerusalemme” (32:26). 

Il libro delle Cronache conferma che, grazie all’umiliazione di Ezechia, il giudizio divino venne rimandato: “L’ira del Signore non si riversò sopra di loro durante la vita di Ezechia” (v. 26).

Nell’umiliazione, la sua corte e il suo popolo si unirono al loro re, come si erano uniti a lui nell’orgoglio e nella mondanità. Dio ne tenne conto. Il giudizio che aveva preannunciato sarà eseguito, ma più tardi. Passerà circa un secolo prima del suo compimento che ebbe luogo per mezzo di Nabucodonosor (Daniele 1).


L’umiliazione di Manasse

2 Cronache 33.10-13

Il racconto che apre il cap. 33 di 2 Cronache ci colpisce. Com’è possibile che un re pio come Ezechia abbia avuto un figlio malvagio come Manasse? E’ detto di lui che “si abbandonò completamente a fare ciò che è male agli occhi del Signore, provocando la sua ira” (v. 6). “Ma Manasse indusse Giuda e gli abitanti di Gerusalemme a sviarsi, e a far peggio delle nazioni che il Signore aveva distrutte davanti ai figli d’Israele” (v. 9). Nella sua pazienza, Dio parlò a Manasse e al suo popolo, per cercare di ricondurli a sé, ma essi non diedero ascolto.

Allora un giudizio immediato si abbatté sul re empio. L’Eterno fece venire contro di lui i capi del re d’Assiria. Manasse fu incatenato e condotto a Babilonia. Noi saremmo portati a dire: ‘Ha avuto ciò che si merita; gli sta bene!’ Ma Dio ha delle risorse che noi non riusciamo ad immaginare. Dal fondo della prigione, nella disperazione, Manasse rientrò in sé e implorò l’Eterno. Ci è detto che “si umiliò profondamente davanti al Dio dei suoi padri, a lui rivolse le sue preghiere” (v.12). “E Dio si arrese ad esse, esaudì le sue suppliche, e lo ricondusse a Gerusalemme”.

Ristabilito nella sua posizione, Manasse produsse ciò che Giovanni Battista chiamerà “frutti degni del ravvedimento” (Luca 3:8). Demolì gli idoli che aveva eretto, e gli altari che erano stati loro consacrati, e cercò di far uscire il popolo da quella via malvagia nella quale per colpa sua si era incamminato. Ma il lavoro fu difficile e inevitabilmente incompleto!


Conseguenze pratiche per noi

Prima di tutto, i quattro racconti che abbiamo esaminato sono per noi un reale incoraggiamento all’umiliazione. “Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio” (1 Pietro 5:6). “Ecco su chi poserò lo sguardo: su colui che è umile, che ha lo spirito afflitto e trema alla mia parola” (Isaia 66:2). Considerando il nostro stato e le nostre mancanze, non dobbiamo forse umiliarci? Dio ci mostra nella sua Parola che non è mai indifferente al pentimento dei suoi. La sua grazia sa apprezzare in giusta misura la realtà del giudizio che siamo disposti a portare su noi stessi. (*)


(*) 

La vera umiliazione – in seguito ad una mancanza – è l’unico modo per ritrovare la comunione con Dio, e occorre dimostrarla con “dei frutti degni del ravvedimento”. Se l’umiliazione non è completa e profonda ci sarà un giudizio, anche se non immediato. E’ giusto che ci umiliamo quando abbiamo sbagliato o anche quando le condizioni dell’assemblea o di qualche fratello non sono buone, e noi ci rendiamo conto di non essere stati capaci di vigilare e di lavorare perché non si arrivasse a quel punto. Se però vivessimo in una continua umiliazione finiremmo per essere continuamente concentrati su noi stessi e sulle nostre debolezze piuttosto che sulle risorse del Signore, sui suoi privilegi, e sulle sue benedizioni, perdendo la gioia di appartenergli e l’entusiasmo per servirlo (N.d.R.)