Leggere Genesi 32:24-31
Per Giacobbe, i vent'anni trascorsi nella casa di Labano erano stati una pesante disciplina. Ed ora, nel momento in cui quel periodo particolarmente difficile della scuola di Dio sta per terminare, deve sostenere una sorta di esame finale, una verifica impegnativa. Giacobbe intraprende il viaggio di ritorno verso la casa paterna, e possiamo notare delle somiglianze fra le vicissitudini legate alla sua partenza e quelle relative al suo ritorno: per esempio, fra la notte trascorsa a Betel e quella memorabile al guado del torrente Iabboc, fra la visione di angeli che salivano e scendevano sulla scala e la visione di angeli a Maanaim; e c'è anche un nuovo incontro con l'Eterno, così com'era avvenuto a Betel dove Dio gli era apparso e gli aveva fatto delle promesse. Purtroppo, però, riscontriamo delle somiglianze fra le due circostanze anche nello stato d'animo del patriarca.
Giacobbe era partito di casa tremante per paura della vendetta di suo fratello Esaù; vent'anni dopo vi ritorna, ma sempre con la stessa paura e la stessa cattiva coscienza. Anche noi, a volte, lasciamo passare degli anni senza mettere in pratica l'esortazione del Signore di riconciliarsi col fratello prima di fare l'offerta (Matteo 5:2) Non stupiamoci allora se i nostri rapporti con Dio non sono quelli che dovrebbero essere. Certo, vediamo Giacobbe che prega, ma lo fa soltanto dopo aver preso delle decisioni sue personali, sulle quali sembra contare di più che sul pensiero dell'Eterno. In questo anche noi sovente gli assomigliamo.
Nel racconto di Genesi 32 ecco Giacobbe di nuovo solo, e di nuovo di notte. Aspettava di incontrare Esaù e invece è "un uomo" misterioso a sbarrargli la strada in quel posto strategico, al guado dello Iabboc, come per opporsi al suo passaggio. E' con lui che Giacobbe ingaggia un combattimento che durerà fino all'alba.
Per tutta la notte l'esito della lotta è incerto; è la prima manche, se così possiamo esprimerci, di questo "corpo a corpo" nel quale sembra che nessuno dei due prevalga sull'altro.
Poi, ecco la seconda fase del combattimento: lo strano avversario sferra all'improvviso un colpo imparabile, e l'anca di Giacobbe, appena toccata, si sloga. Ecco allora che i suoi occhi si aprono. Colui che ha lottato con lui e al quale ha osato resistere non era un uomo come gli altri: era il Signore in persona, che Osea 12:5 definisce "l'Angelo", e i versetti 28 e 30 di questo capitolo 32 di Genesi designano come Dio stesso.
C'è poi una terza fase, forse la più difficile da comprendere di tutta questa scena, nella quale vediamo la vittoria finale di Giacobbe.
Consideriamo la lotta nel suo insieme: all'inizio le ore passano, senza vincitore né vinto; e noi che sappiamo chi è che si oppone a Giacobbe, fatichiamo a immaginare come il combattimento possa essersi prolungato per tanto tempo senza la vittoria di Dio. È evidente che non era Giacobbe il più forte, ma il fatto che Dio non abbia potuto prevalere su di lui può essere compreso solo se ci si rifà all'applicazione spirituale di questo racconto straordinario.
La lotta di Giacobbe contro l'Eterno è l'immagine della sua vita. Lottare senza tregua con Dio, contrattare con lui, ricercare il profitto e il tornaconto anche con l'inganno, è stata la parte di quest'uomo nel quale forse qualcuno di noi si riconoscerà. Anche noi abbiamo tendenza a combattere "contro sangue e carne" (Efesini 6:12), cioè contro persone e circostanze, a entrare in conflitto con "un uomo", senza discernere subito che dietro a lui c'è il Signore che si mette con ogni evidenza contro un nostro progetto. E non ci è forse capitato di tentare di farlo cedere, di cercare di essere più forti di lui? Triste e temibile vittoria sarebbe, quand'anche riuscissimo nel nostro intento! Vorremmo forse piegare Dio ai nostri capricci? Questo avrebbe il solo risultato di prolungare la lotta, di ritardare la scadenza, e di dover comunque affrontare il Signore più tardi, perché con lui non avremo mai l'ultima parola. Egli ci ama troppo per lasciarci fare di testa nostra.
Va dunque da sé che, alla fine, Giacobbe non può avere il sopravvento. Ma leggiamo bene il v. 25: l'Angelo "vide che non poteva vincerlo". Fatto sorprendente, che peraltro si spiega sia con la Parola sia riflettendo sulle nostre esperienze. La "carne" non può essere domata da nulla: né dalla morale umana, né dai vincoli delle convenzioni sociali, né dai nostri sforzi personali (Romani 7:19). Nemmeno Dio può modificare la nostra carne perché è incorreggibile; solo la morte è la parte che le spetta. "Per quale ragione colpirvi ancora? - diceva l'Eterno a Israele (Isaia 1:4-5) - Aggiungereste altre rivolte... Dalla pianta del piede fino alla testa non c'è nulla di sano in esso".
A questo corrisponde la seconda fase del combattimento. Il dito divino si posa sull'articolazione dell'anca di Giacobbe, e da quel momento ogni suo passo zoppicante gli ricorderà che non ha alcuna forza in se stesso e che tutto il suo cammino dipende dal sostegno di Dio. Ecco ciò che impara qui Giacobbe, e che dobbiamo imparare anche noi: la croce di Cristo è la fine della forza dell'uomo in Adamo ed è quella che dà la sua impronta a tutte le nostre vie.
Ma, Dio sia benedetto, il combattimento di Iabboc comporta un terzo e ultimo episodio, l'unico di cui fa menzione il passo di Osea 12:5 già citato: "Lottò con l'Angelo e restò vincitore (o prevalse)". Sì, abbiamo letto bene: la vittoria finale è l'uomo battuto che la riporta. Quel Giacobbe dall'anca lussata reclama e ottiene la benedizione di colui che aveva appena avuto il sopravvento. Così, all'improvviso, la situazione si capovolge e il vinto di un momento prima diventa ora il vincitore. Dio riconosce questo fatto, e lo immortala nel nuovo nome che dà a Giacobbe: Israele, ossia vincitore (o principe) di Dio!
Com'è stata ottenuta la vittoria, alla fine? Mediante la preghiera! Osea ci dice: "Egli pianse e supplicò", e il v. 26 di Genesi 32 descrive i termini di questa supplica accompagnata da lacrime: "Non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto". Giacobbe sarà benedetto da Dio ma prima è necessario che confessi il suo vecchio nome (v. 27) che significa ingannatore, uno che fa lo sgambetto per far cadere gli altri, e che comprenda che i suoi sotterfugi e i suoi espedienti disonesti non hanno posto nel piano di Dio per lui. A questo è servita l'esperienza di Peniel.
Il sole si leva (v. 31), il sole di Peniel, che significa "faccia di Dio". Sì, è proprio la luce della faccia di Dio che brilla sul patriarca, benedizione per lui e che diventerà anche quella di tutto Israele: "L'Eterno faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio. L'Eterno rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace!" (Numeri 6:25). La benedizione tanto desiderata da Giacobbe è stata ottenuta, alla fine, nel modo giusto: reclamata con l'ardire della fede a un Dio che non chiede altro che di lasciarsi vincere! Il nostro Dio ama questo; per lui la fede non è mai troppo audace, non richiede mai troppo. Ad una piccola fede corrisponde una piccola risposta; ma a una grande fede, una grande risposta!
"Principe" e claudicante, Giacobbe riprende il suo pellegrinaggio. Ha sempre Esaù davanti a sé, e Labano dietro. Non è liberato dalle circostanze avverse e delle quali ha paura. Ma, cosa ben più importante, è la sua anima che è stata liberata, anche se il suo corpo porta ormai l'impronta evidente dalla sua impotenza. Quell'infermità sarà per lui, come per Paolo, come per ciascuno di noi quando la realizziamo, l'occasione per il Signore di mostrare la sua potenza. Giacobbe si allontana dal torrente "zoppicando dall'anca"; e quello è il solo risultato visibile, per il momento, del suo incontro con l'Eterno!
Neppure lui, come del resto anche i suoi padri e come tutti gli uomini di fede che gli succederanno, ha ricevuto le cose promesse; non può far altro che "salutarle da lontano" (Ebrei 11:13); ma ormai egli porta il nome glorioso che ne garantisce il possesso.
In verità, a quel torrente di Iabboc e ai primi bagliori di quel mattino trionfante, Israele ha iniziato la sua storia!