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domenica 7 febbraio 2021

La gioia cristiana

Da una lettera scritta in carcere


L’apostolo Paolo ha scritto la sua Lettera ai Filippesi da un carcere, a Roma. Dal punto di vista umano, non era certo nelle migliori condizioni per provare della gioia. È vero che non si trattava ancora della successiva dura prigionia che si concluderà con il martirio, tuttavia era “in catene” e sorvegliato nella caserma della coorte pretoriana, vicino al palazzo dell’imperatore Nerone. Eppure, non soltanto sentiva dei motivi per rallegrarsi, ma non si era lasciato sfuggire l’occasione per parlare anche lì del Signore, per il quale era stato imprigionato (“a tutti quelli del pretorio e a tutti gli altri è divenuto noto che sono in catene per Cristo” – 1:13), e questo aveva prodotto un altro notevole risultato: “la maggioranza dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, hanno avuto più ardire nell’annunciare senza paura la parola di Dio” (1:14). Poteva quindi affermare: “Quanto mi è accaduto ha piuttosto contribuito al progresso del vangelo” (1:12). Questo era il primo grande motivo della gioia che provava. 

Nel corso della Lettera, Paolo (nella quale, notiamo, non si presenta come “apostolo”, ma come “servo di Cristo Gesù”, al pari di Timoteo, suo compagno d’opera) per altre sei volte parla della gioia sua e dei credenti a cui s’indirizzava. 

“Sempre, in ogni mia preghiera per tutti voi, prego con gioia a motivo della vostra partecipazione al vangelo” (1:5). 

Notiamo che la lettera è indirizzata “a tutti i santi in Cristo Gesù che sono in Filippi, con i vescovi e con i diaconi”, cioè non soltanto ai fratelli che avevano funzioni e responsabilità speciali. Tutti i credenti di Filippi avevano preso parte, nella propria misura e in dipendenza dello Spirito, all’opera del vangelo; tutti avevano svolto “il compito di evangelista” (2 Timoteo 4:5). E non soltanto, ma essi avevano partecipato con Paolo “nella difesa e nella conferma del vangelo” (1:7), e lo facevano in pratica e in preghiera, con zelo, per Cristo e per le anime. Questo non esimeva Paolo dal far salire a Dio per i Filippesi delle preghiere “secondo la Sua volontà” (1 Giovanni 5:14), perché il loro “amore” abbondasse “sempre più in conoscenza e in ogni discernimento” e fossero “limpidi e irreprensibili”; ma pregava per loro con gioia, rallegrandosi per la loro condizione spirituale, la loro attività ed i risultati che ne erano derivati, una gioia che gli faceva dimenticare le sue sofferenze. 

Questa preghiera gioiosa di Paolo ci interpella, non perché ci “piangiamo addosso” ma per stimolarci: se Paolo pregasse per noi, avrebbe analoghi motivi per farlo con gioia? E se noi ci trovassimo nelle sue condizioni, sapremmo guardare oltre la nostra condizione di sofferenza, pensando alla salvezza di chi riceve il vangelo e al progresso che esso produce nei cuori e nelle coscienze? 


“Alcuni predicano Cristo anche per invidia e per rivalità… Comunque sia… Cristo è annunziato; di questo mi rallegro, e mi rallegrerò ancora” (1: 15, 18). 

Paolo avrebbe avuto motivo di rattristarsi per lo spirito con cui alcuni predicavano Cristo: per invidia, rivalità, senza sincerità, pensando di aggiungergli altre afflizioni… C’era di che deprimersi. Ma ancora una volta il suo pensiero va in una direzione più elevata: l’annuncio del messaggio di Cristo morto, risorto, glorificato, avrebbe comunque raggiunto qualcuno e prodotto il suo effetto (Isaia 55:11). L’efficacia del vangelo non era sminuita dal cattivo spirito da cui erano animati quegli “alcuni”. Ovviamente Paolo li disapprovava e non era neppure sfiorato dal pensiero che i Filippesi avrebbero potuto associarsi a quelli che agivano così; ma la gioia che sentiva pensando che l’annuncio dell’opera di Cristo in favore degli uomini era comunque stato dato andava oltre ad ogni altro pensiero, sia riguardo alla sua persona che alla responsabilità di chi non predicava “di buon animo”, “per amore” (1:15-17). 

Anche oggi non sempre Cristo viene annunciato con intenti e mezzi condivisibili. Ma possiamo dire anche noi con sincerità: “Cristo è annunziato; di questo mi rallegro”? Questo sentimento prevale su ogni altra considerazione, per quanto legittima? Siamo realmente felici pensando che qualche anima potrebbe essere “comunque” strappata a Satana per l’eternità? 


“Ho questa ferma fiducia: che rimarrò e starò con voi tutti per il vostro progresso e per la vostra gioia nella fede” (1:25).

Paolo non poteva sapere come si sarebbe concluso il suo processo davanti a Nerone. “Stretto da due lati” (1:23), era già disponibile al martirio per essere col suo Signore, come vedremo più avanti (2:17), e nello stesso tempo si rendeva conto di quanto egli fosse utile per il progresso dei “santi” di Filippi. Così scrive di essere certo che li avrebbe raggiunti; ed essi avrebbero provato una grande “gioia nella fede”, oltre che per la sua liberazione, per la crescita spirituale che avrebbero avuto beneficiando di nuovo del suo ministero. Non sappiamo se questo si sia avverato, ma Paolo, quasi anticipandone la realizzazione, amplia l’orizzonte dei suoi pensieri dalla sua gioia a quella dei suoi cari Filippesi. 

Riusciamo a distogliere i nostri pensieri da noi stessi per orientarli verso la vera gioia di cui il fratello o la sorella possono godere progredendo nella conoscenza del Signore? E, soprattutto, siamo pronti a metterci a disposizione del Signore perché si serva di noi per questo lavoro, nella misura e nel modo che Lui riterrà opportuni per noi?


“Rendete perfetta (o compiuta) la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento” (2:2). 

Nonostante le attività e il buon livello spirituale dei Filippesi, nella chiesa qualche problema c’era; lo possiamo capire dall’esortazione alla concordia che fa a due sorelle, peraltro molto attive “per il vangelo”, le quali evidentemente avevano dei contrasti fra loro (4:2-3). Paolo ne era stato informato, probabilmente da Epafrodito che lo aveva visitato; e questi contrasti intaccavano almeno in parte la sua gioia. Di qui l’esortazione, fatta con molta delicatezza, a realizzare una vera unità nel Signore. 

L’unità “nel Signore” si manifesta nei modi seguenti:

- avere un medesimo pensiero: non si tratta di ricercare i punti in comune dei vari pensieri, ma di conformarsi al pensiero e al modello del Signore, particolarmente per quanto riguarda l’umiltà, premessa indispensabile per arrivare a una vera concordia;

- avere un medesimo amore, come descritto in 1 Corinzi 13, sincero e senza favoritismi, tendendo verso l’amore perfetto del Signore; 

- essere di un animo solo e di un unico sentimento, espressione che alcuni traducono, letteralmente, “pensando a una sola e medesima cosa”; e cosa poteva essere se non “lo stesso sentimento che è stato in Cristo Gesù”, cioè la vera umiltà che il Signore ha dimostrato perfettamente nel suo cammino dal cielo alla croce? (v. 5)? 

Anche in questo passo della Lettera notiamo che Paolo attinge al di fuori di se stesso i motivi della sua gioia: si sarebbe rallegrato “perfettamente” se i suoi cari fratelli e sorelle fossero stati veramente uniti nel Signore. Noi, se viviamo in questa unità, rallegriamo il cuore del Signore, e anche noi saremo più felici. 


“Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro… gioitene anche voi…” (2:17). 

Qui Paolo arriva a delle vette difficilmente raggiungibili. Realizza alla lettera ciò che l’apostolo Giovanni scriverà: “Egli (Gesù Cristo) ha dato la sua vita per noi; anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli” (1 Giovanni 3:16). Pensando al suo possibile martirio, non esprime ansietà e neanche rassegnazione, ma prova gioia, e addirittura esorta i Filippesi a rallegrarsene con lui. 

La libazione consisteva nel versare sui due agnelli offerti in sacrificio a Dio, la mattina e la sera, una certa quantità di vino (Esodo 29:38-42); era evidentemente un elemento accessorio del sacrificio. Notiamo quindi che paragonando la fede e il servizio dei Filippesi a ciò che veniva sacrificato a Dio, e il dono della sua vita alla libazione, Paolo porta fino alle estreme conseguenze l’insegnamento che aveva dato: stimare gli altri più di se stessi (2:3). Dimenticando se stesso, egli si vede associato a “tutti” loro in un’unica offerta a Dio e nella medesima gioia. Capiamo così perché Paolo poteva esortare i Corinzi scrivendo: “Siate miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo” (1 Corinzi 11:1).

Senza presumere di arrivare a quelle altezze, non potremo almeno cercare di alzare il livello delle nostre motivazioni di gioia concentrandoci meno su noi stessi e di più su ciò che onora il Signore e sul bene dei nostri fratelli? 


“Ho avuto grande gioia nel Signore, perché finalmente avete rinnovato le vostre cure per me” (4:10). 

Paolo aveva “imparato” a sentirsi contento in qualsiasi circostanza, in povertà e in abbondanza, anche in prigione. Ma l’amore dei Filippesi, che avevano dimostrato di amarlo non “a parole e con la lingua, ma a fatti e in verità” (1 Giovanni 3:16), lo aveva toccato profondamente e aveva ancora aumentato la sua gioia; essi infatti, tramite Epafrodito, gli avevano fatto pervenire un dono che Paolo definisce “un profumo di odore soave, un sacrificio accetto e gradito a Dio” (18). Ecco perché questa sua gioia era “nel Signore”: tutto veniva da Lui ed era per Lui; era il Signore che aveva messo il Suo amore nel cuore dei cari di Filippi e aveva dato loro l’occasione di prendersi cura di Paolo.

Quando siamo oggetto delle cure dei nostri fratelli e ce ne rallegriamo, siamo davvero capaci di vedere in questo un frutto che il Signore ha prodotto in loro tramite il suo Spirito, e quindi attribuire anzitutto a Lui il motivo della nostra gioia? 

E ora, cari fratelli e sorelle, avendo davanti a noi questo quadro, apprezzeremo più a fondo il significato delle esortazioni che Paolo faceva ai fratelli e sorelle di Filippi, e che fa anche a noi, oggi, dopo quasi due millenni: 

- “Del resto, fratelli miei, rallegratevi nel Signore” (3:1)

- “Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi” (4:4).


F. Cucchi

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