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domenica 21 febbraio 2021

Le afflizioni di Giuseppe

“Mandò davanti a loro un uomo, Giuseppe, che fu venduto come schiavo. Gli legarono i piedi con ceppi; fu oppresso con catene di ferro, finché si avverò quanto aveva predetto, e la parola del SIGNORE gli rese giustizia. Il re lo fece slegare, il dominatore di popoli lo liberò; lo stabilì signore della sua casa” 

(Salmo 105:17-21)


Un figlio amato da suo padre e odiato dai suoi fratelli

Giacobbe amava il figlio Giuseppe più di tutti gli altri (Genesi 37:3). L’aveva avuto dalla sua cara moglie Rachele che morirà poi alla nascita di Beniamino. Giuseppe, in cambio, era molto attaccato al padre. Per mostrare il posto particolare che aveva nel suo cuore, Giacobbe aveva dato a Giuseppe una veste “lunga e con le maniche”, ma questo non aveva fatto che accrescere l'odio dei suoi fratelli verso di lui. La loro gelosia faceva sì che essi non potevano parlargli amichevolmente (v. 4). È un avvertimento per noi: può accadere che i membri di una famiglia cristiana non vadano d’accordo a causa di motivi di questo genere, di trattamenti diversi, di predilezioni che generano invidie che non si cancelleranno mai più. 

Il primo carattere che si nota in Giuseppe è una coscienza sensibile. Benché giovane, gli era difficile sopportare le cattive intenzioni e la condotta discutibile dei suoi fratelli, e ne parlava a suo padre (v. 2).

Quando, per mezzo di sogni, Dio gli fa conoscere il futuro glorioso che lo riguarda, egli ne parla ai suoi fratelli e a suo padre (v. 5 -10) i quali però non possono accettare l’idea che un giorno il giovane Giuseppe possa occupare una posizione al di sopra di loro.

Un giorno, Giacobbe chiede a Giuseppe di andare dai suoi fratelli che sono al pascolo col gregge del padre per avere loro notizie e informarsi sullo stato del bestiame. Andare da quelli che lo odiavano non era senza rischio per lui; ciononostante, sottomesso all’ordine del padre, non solleva alcuna obiezione e accetta l’incarico dicendo: “Eccomi” (v. 13). Questa obbedienza è un’immagine dell’ubbidienza perfetta del Signore Gesù e anche un esempio per ciascuno di noi. 


Giuseppe venduto dai suoi fratelli

Per Giuseppe, che al momento ha 17 anni, stanno per iniziare 13 lunghi anni di sofferenze. Per affrontarli sarà solo, senza alcun soccorso umano, ma si appoggerà sul SIGNORE.

I suoi fratelli “lo videro da lontano e, prima che egli fosse vicino a loro, complottarono per ucciderlo. Dissero l'uno all'altro: «Ecco, il sognatore arriva! Forza, uccidiamolo e gettiamolo in una di queste cisterne; diremo poi che una bestia feroce l'ha divorato” (v. 18 -20).

Ruben tenta timidamente di opporsi. Allora lo spogliano del suo bell’abito e lo gettano in una cisterna vuota (v. 23 e 24), mostrandosi totalmente insensibili alla sua disperazione a al suo pianto; “poi si sedettero per mangiare…”. Vent'anni più tardi, quando la loro coscienza sarà risvegliata (42:21), diranno: “Vedemmo la sua angoscia quando egli ci supplicava, ma non gli demmo ascolto!” e riconosceranno la loro colpa. 

Poiché una carovana di Ismaeliti, che portava delle spezie in Egitto, passa di lì, Giuda propone ai fratelli di vendere Giuseppe come schiavo: “Che ci guadagneremo a uccidere nostro fratello e a nascondere il suo sangue? Su, vendiamolo agli Ismaeliti” (v. 26, 27). In cambio del loro crimine ottengono la ridicola somma di venti monete d’argento. Questa durezza del cuore umano anche verso il proprio fratello, ci fa pensare all’odio subito dal Signore respinto da parte del “suoi” (Giovanni 1:11): ingiustamente colpito, ingiuriato, coperto di vergogna, condannato e messo a morte.

I fratelli di Giuseppe saranno insensibili anche davanti al dolore del loro padre che fingeranno ipocritamente di voler consolare (v. 31-35), dolore che quel povero vecchio ingannato porterà per più di vent’anni, e che si aggiungerà a quello della perdita di Rachele.


Un servitore che faceva prosperare ogni cosa

Giuseppe serba nel suo cuore le promesse divine e tiene duro quando grandi sofferenze vengono a colpirlo, una dopo l'altra. Anche oggi, noi credenti dobbiamo basarci sulle grandi e preziose promesse ricevute da Dio (2 Pietro 1:4) e aspettare il loro compimento attraversando le prove che Dio stima necessarie.

Giuseppe non si lascia scoraggiare, ma si affida all’Eterno. Egli anticipa l'esortazione che la Lettera ai Colossesi rivolge agli schiavi: “Ubbidite in ogni cosa ai vostri padroni secondo la carne; non servendoli soltanto quando vi vedono, come per piacere agli uomini, ma con semplicità di cuore, temendo il Signore. Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete per ricompensa l'eredità. Servite Cristo, il Signore!” (3:22-24; vedere anche Efesini 6:5-8). 

Un cristiano, anche se giovane com’era Giuseppe, deve impegnarsi nel lavoro e rendere una buona testimonianza là dove si trova. Messo alla prova nel suo servizio, Giuseppe è fedele: “Il SIGNORE era con Giuseppe: a lui riusciva bene ogni cosa” (Genesi 39:2). Per questo il suo padrone Potifar gli lascia la cura di occuparsi di tutto ciò che gli appartiene (v. 5-6). Il Signore, uomo perfetto quaggiù, poteva dire parlando di Suo padre: “Faccio sempre le cose che gli piacciono” (Giovanni 8:29). Di Lui è detto, profeticamente: “Qualcuno mi comprò fin dalla mia giovinezza” (Zaccaria 13:5).


La fedeltà di Giuseppe davanti alla tentazione

“Giuseppe era avvenente e di bell’aspetto” (39:6), attira chi gli vive attorno. Ma lo aspetta una prova molto dura, quella della tentazione della moglie del suo padrone. Dio ha voluto che questo racconto - come anche quello della caduta del re Davide in 2 Samuele 11 - facesse parte delle Scritture per metterci in guardia contro alcuni pericoli specifici. Non dobbiamo mai pensare di essere al riparo da simili tentazioni (“Chi pensa di stare in piedi badi di non cadere”, 1 Corinzi 10:12); anzi, coscienti della nostra debolezza e della realtà della concupiscenza della carne, dobbiamo vegliare attentamente sulle nostre vie e appoggiarci sul Signore che può farci “stare in piedi” (Romani 14:4). 

Satana si serve di una donna perfida, la moglie di Potifar, per cercare di sedurre Giuseppe: “Unisciti a me!”. Giuseppe rifiuta e motiva il suo rifiuto: “Come dunque potrei fare questo gran male e peccare contro Dio?” (v. 9). L'adulterio non è soltanto un torto fatto al nostro prossimo, ma è prima di tutto un peccato contro Dio (cfr Salmo 51:4, scritto da Davide dopo il suo grave peccato). Tutto ciò che riguarda la trasmissione della vita dev’essere circondato dal più grande rispetto. Che contrasto tra l'atteggiamento coraggioso di Giuseppe e la leggerezza di cui si dà prova oggi riguardo alla fornicazione o all'adulterio!

Leggiamo che quella donna gliene parlava “ogni giorno” (v. 9), lo invitava ripetutamente a commettere il peccato. Giuseppe non le dà retta, anzi, evita con cura di trovarsi da solo con lei. Quando arriva il momento più pericoloso, fugge via (v. 12). Il suo comportamento è in accordo con l’esortazione di Paolo: “Fuggite la fornicazione” (1 Corinzi 6:18; cfr 2 Timoteo 2:22). Quando siamo in pericolo, impariamo a dire con fermezza “No”, e ricordiamoci che il pericolo può essere prevenuto: “Se il tuo occhio destro ti fa cadere in peccato, cavalo e gettalo via da te… E se la tua mano destra ti fa cadere in peccato, tagliala e gettala via da te” (Matteo 5:29, 30). Non vedersi, non scriversi, non sentirsi più. “Il corpo… è per il Signore e il Signore per il corpo”; il nostro corpo “è il tempio dello Spirito Santo” (1 Corinzi 6:13,19; cfr 1 Tessalonicesi 5:23).

Per un giovane che vive solo, l’insensatezza di una sera può avere gravi conseguenze. Quando la tentazione si ripete, il desiderio e la concupiscenza diventano lancinanti. Guardiamoci dall’ozio della sera (Proverbi 7:6-27; 2 Samuele 11:2). La caduta non è inevitabile. La potenza del Signore ci protegge: “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscirne, affinché la possiate sopportare” (1 Corinzi 10:13). Nessuno può sinceramente dire che la tentazione sia irresistibile se facciamo immediatamente appello alle risorse divine. Attorno al credente si trova, come lo ricorda Satana nel caso di Giobbe, “un riparo” (Giobbe 1:10). Molti credenti l’hanno sperimentato e sono riconoscenti al Signore; ma attenzione, la Parola ci avverte: “Chi demolisce un muro sarà morso dalla serpe” (Ecclesiaste 10:8; cfr Proverbi 6:27). Guardiamoci dalle tenebre morali in cui giace il mondo. Non lasciamoci attirare dalle innumerevoli cose cattive che ci vengono presentate de certe riviste o certi siti internet. Potremmo facilmente cadere in una delle trappole di Satana, che piacciono tanto alla nostra carne. Non pensiamo di essere sufficientemente forti da venirne fuori senza danno, come credeva Sansone quando ha inutilmente cercato di liberarsi “come le altre volte” (Giudici 16:20, 21). “Come potrà il giovane render pura la sua via? Badando a essa mediante la tua parola” (Salmo 119:9), ci ricorda il salmista. Conserviamola nel nostro cuore, di modo da non peccare contro Dio (v. 11).


La prova dell’ingiusta detenzione

Giuseppe ha tenuto fermo di fronte a quella grave tentazione e Dio è stato glorificato. Però, dopo una simile fedeltà, giunge per Giuseppe la prova di una tremenda ingiustizia da parte dei suoi padroni. In realtà, questa prova faceva parte della formazione che Dio si era proposta per il suo servitore, il quale un giorno avrebbe dovuto essere alla testa di un impero. Giuseppe viene accusato falsamente e gettato in prigione.

Questa volta, la prova sarà molto lunga. Secondo le espressioni del Salmo 105, i suoi piedi sono stati legati “con ceppi”, ed è stato oppresso “con catene di ferro” (v. 18). Giuseppe deve conoscere le crudeli sofferenze che a quel tempo erano riservate ai criminali. In queste condizioni, come avrebbe potuto realizzarsi l'avvenire brillante annunciato dai suoi sogni? Eppure, in Giuseppe la tribolazione produrrà pazienza “finché si avverò quanto aveva predetto, e la parola del SIGNORE gli rese giustizia” (v. 19). Tutto sembra terribilmente oscuro, ma Giuseppe resta fedele.

Tuttavia, l'Eterno era con Giuseppe là nella sua oscura prigione (Genesi 39:21, 23) come d'altronde lo era stato durante tutto il suo soggiorno in casa di Potifar. Nella sua angosciosa situazione, quel giovane ha fatto l'esperienza della presenza del suo Signore e della bontà di Colui che ha imparato a conoscere più intimamente. 

Il credente è in grado di gloriarsi nelle tribolazioni, “sapendo che l'afflizione produce pazienza, la pazienza esperienza, e l'esperienza speranza. Or la speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato” (Romani 5:3-5). Purtroppo, siamo spesso sconvolti quando le circostanze ci sono contrarie, com’era capitato a Giacobbe quando aveva pensato di essere stato privato di tre dei suoi figli: “Tutte queste cose pesano su di me” (Genesi 42:36).

“Il SIGNORE fu con Giuseppe, gli mostrò il suo favore e gli fece trovar grazia agli occhi del governatore della prigione” (39:21); costui “non rivedeva niente di quello che era affidato a lui”. Tutto quel che Giuseppe faceva prosperava “perché il SIGNORE era con lui” (v. 23; cfr Salmo 1:3). Giuseppe viene così scelto per servire due ufficiali: il capo dei coppieri e quello dei panettieri che erano stati messi in prigione per aver irritato il faraone e erano in attesa del loro giudizio. 

Nella sua triste situazione, Giuseppe si occupa degli altri, non si crogiola nel suo dolore. Un mattino, nota l'abbattimento dei due compagni di cella e li interroga affettuosamente (46:6, 7). Quelli raccontano di avere avuto un sogno e di non sapere come fare per interpretarlo. Allora Giuseppe, come farà Daniele più tardi, rende loro testimonianza che è Dio il solo che può dare l'interpretazione di un sogno.

Giuseppe, in prigione già da nove anni, dopo avere annunciato al coppiere la sua prossima liberazione, lo prega di ricordarsi di lui quando sarà stato ristabilito nelle sue funzioni (40:14, 15). Purtroppo, però, dopo essere stato liberato, il coppiere dimentica il suo compagno di sventura (v. 23), almeno per un certo periodo di tempo. 

Questo è l'egoismo tipico dell'uomo; ma qual è il nostro atteggiamento riguardo coloro che sono messi in prigione a causa della loro fedele testimonianza resa a Cristo? La Scrittura ci ricorda che i cristiani ebrei avevano mostrato simpatia per i carcerati (Ebrei 10:34), e la stessa Lettera ci esorta: “Ricordatevi dei carcerati, come se foste in carcere con loro; e di quelli che sono maltrattati, come se anche voi lo foste!” (13:3).


L’interpretazione dei sogni del Faraone

Se il coppiere si fosse preso a cuore la situazione di Giuseppe, quest'ultimo avrebbe potuto forse essere graziato e liberato, ma Dio aveva dei disegni diversi e meravigliosi: aveva deciso di dare a Giuseppe una posizione di supremazia e di gloria! L’apostolo Paolo rivela ai credenti afflitti che il Dio di ogni grazia, che li ha chiamati alla Sua gloria eterna in Cristo, dopo che avrebbero sofferto per un breve tempo li avrebbe Egli stesso perfezionati, resi fermi, fortificati stabilendoli su un fondamento incrollabile (1 Pietro 5:10). L'apostolo Paolo stimava che “le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo” (Romani 8:18).

La carcerazione di Giuseppe si prolunga ancora per due anni, ma Dio non lo ha dimenticato (Isaia 49:15,16). In seguito ai sogni che hanno turbato il faraone e che nessuno indovino dell'Egitto ha saputo interpretare, Dio permette che al coppiere torni la memoria (Genesi 41:9-13). Chiamato dal Faraone, Giuseppe esce dalla “fossa”, si rasa e si cambia i vestiti. Umile e dipendente annulla se stesso e dà ogni gloria a Dio. Il Faraone aveva avuto due sogni che annunciavano l'arrivo imminente di due periodi di sette anni ciascuno, uno di abbondanza e l'altro di carestia, e con questi sogni Dio dichiarava a Faraone ciò che stava per fare. 

La Parola ci dice che è bene per l'uomo “portare il giogo della sua giovinezza” (Lamentazioni 3:27). Se il giogo del Signore è leggero (Matteo 11:30), quello degli uomini è spesso oppressivo. Dio permette questo genere di prove per spezzare il nostro orgoglio.

Con la saggezza ricevuta da Dio, Giuseppe dà al Faraone una chiara interpretazione dei sogni e inoltre gli suggerisce come fare per gestire prudentemente l'abbondanza degli anni a venire per essere preparati ad affrontare il periodo di carestia.


L’innalzamento di Giuseppe

Il Faraone crede alle parole di Giuseppe per la propria salvezza, quella del suo popolo e quella dei territori circostanti; e dice ai suoi servi: “Potremmo forse trovare un uomo pari a questo, in cui sia lo spirito di Dio?” (Genesi 41:38) e a Giuseppe: “Poiché Dio ti ha fatto conoscere tutto questo, non c'è nessuno che sia intelligente e savio quanto te. Tu avrai autorità su tutta la mia casa e tutto il popolo ubbidirà ai tuoi ordini” (v. 39, 40).

In quel momento Giuseppe ha trent'anni. Abbandonata definitivamente la divisa da carcerato, viene rivestito di una veste reale e delle prerogative legate alla sua dignità. In particolare, riceve dal Faraone l'anello che simboleggia il suo potere e un nuovo nome, che significa “rivelatore dei segreti” e “salvatore del mondo” (o anche “sostegno della vita”), tutti i nomi che evocano il Signore Gesù. Quando percorre tutto il paese d'Egitto si grida davanti a lui: “Abrec!” cioè “in ginocchio!” e riceve Asenat come sposa (v. 42-46).

Tutto questo parla in modo simbolico del Signore Gesù. Tutta la Parola ci parla delle Sue sofferenze e delle glorie che seguiranno (1 Pietro 1:11); senza dubbio, non esiste altro personaggio biblico che lo raffiguri in modo altrettanto completo. Ma Giuseppe, per la sua fedeltà, è anche un bel modello per noi!


Ph. Laügt