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martedì 20 giugno 2023

Ai piedi del monte della trasfigurazione

(Leggere Luca 9:37-56)

Se la contemplazione della gloria di Cristo sul monte della trasfigurazione ci conforta il cuore, il comportamento dei discepoli “quando scesero dal monte”, parla in modo solenne alle nostre coscienze. Quando siamo sul monte, per così dire, impariamo chi è il Signore; quando scendiamo, impariamo che cosa sono i nostri cuori. E’ una lezione dolorosa, ma molto utile.

Ecco alcuni episodi sui quali possiamo riflettere.


L’incapacità dei discepoli di scacciare uno spirito maligno (Luca 9:37-43)

Questo racconto rivela innanzi tutto l’incapacità dei nove discepoli, rimasti in pianura, a scacciare uno spirito particolarmente violento. E non sembra che il ritorno dei tre che erano stati sul monte col Signore (Pietro, Giacomo e Giovanni) sia valso a cambiare la situazione. Eppure l’autorità sugli spiriti immondi era stata espressamente conferita ai dodici dal Signore, fin dalla loro chiamata ad accompagnare il Maestro (Matteo 10:1; Marco 6:7). Qual era dunque il motivo del loro fallimento? Ce lo rivela Marco nel suo racconto: “Questa specie di spiriti non si può far uscire in altro modo che con la preghiera e il digiuno” (Marco 9:29). La preghiera esprime la dipendenza da Dio; il digiuno invita ad astenersi da quello che alimenta la carne che è in noi, per essere “vigilanti in ogni cosa” (2 Timoteo 4:5).

E’ questo che spesso manca nella nostra vita cristiana. Non si tratta di compiere un miracolo o di scacciare demòni, ma di riportare la vittoria sulle potenze spirituali della malvagità che sono nei luoghi celesti che tentano di rapirci il godimento della nostra eredità e delle nostre benedizioni celesti in Cristo, e di rendere inefficace la nostra testimonianza. Per questo è necessario un esercizio costantemente rinnovato. Una vittoria riportata ieri non garantisce una nuova vittoria oggi.

E’ cosa indispensabile, per l’equilibrio della nostra vita cristiana, che si svolge “in pianura” e non sul monte, che restiamo sempre in comunione col Signore, portati in alto dal pensiero della grazia di Cristo e del suo amore per noi. La contemplazione della sua gloria non dev’essere un episodio saltuario e occasionale, riservato a qualche momento di particolare dedizione a Lui, di comunione, di gioia spirituale, ma una regola costante. Non basta aver “contemplato” Cristo per la fede in un giorno della nostra vita, per essere preservati dai pericoli del mondo per tutto il resto della nostra esistenza terrena; sul monte bisogna viverci.

Il Signore ha censurato con forza i suoi discepoli: “O generazione incredula e perversa, fino a quando sarò con voi e vi sopporterò?” (v. 41). Da queste parole comprendiamo la pena causata dai discepoli al cuore del loro Maestro.

E’ questa la prima lezione che possiamo imparare. Ma non giudichiamoli; al loro posto non avremmo fatto meglio. Inoltre, oggi siamo più responsabili di loro perché abbiamo lo Spirito Santo in noi, ed essi non l’avevano ancora. La croce di Cristo ha poi rivelato in modo più chiaro la gravità del nostro stato naturale che i discepoli non conoscevano così bene.

 

Una disputa: qual è il più grande? (Luca 9:43-48)

Si sarebbe potuto pensare che il fallimento dei discepoli li avrebbe mantenuti nell’umiltà, tanto più che il Signore parla loro di ciò che l’aspettava a Gerusalemme (v. 44). Ma la carne è incorreggibile! Tra di loro sorge una disputa per sapere chi fosse il più grande. Gesù allora prende un bambino e lo presenta loro come espressione di umiltà, di debolezza e di dipendenza. Per entrare nel regno dei cieli bisogna diventare così (Matteo 18:2, 3).

Pressappoco nello stesso momento, Giacomo e Giovanni chiedono una posizione d’autorità con il loro Maestro, nella gloria: “Concedici di sederci uno alla tua destra e l’altro alla tua sinistra nella tua gloria” (Marco 10:35-45). E quella domanda a sproposito era appoggiata dalla loro madre (Matteo 20: 20-22).

Alla fine, cosa ancora più triste, ecco sorgere un’altra disputa tra i discepoli, proprio nella notte in cui Gesù stava per essere arrestato, quando aveva appena istituito il memoriale delle sue sofferenze e della sua morte: “Fra di loro nacque anche una contesa: chi di essi fosse considerato il più grande” (Luca 22:24). Allora Gesù disse loro: “Chi è più grande, colui che è a tavola o colui che serve? Non è forse colui che è a tavola? Ma io sono in mezzo a voi come colui che serve. Or voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io dispongo che vi sia dato un regno, come il Padre mio ha disposto che sia dato a me” (v. 27-29). 

Il Signore della gloria prende volontariamente il posto di servo (v. 12:37)! Senza nessun rimprovero per quei discepoli che erano tanto estranei ai suoi pensieri, li riconosce come quelli che avevano perseverato con lui nelle prove, e promette loro un posto d’onore e di comunione con lui nel suo regno. Che ammirevole condiscendenza e che gloria morale in quel modo di agire e in quelle parole!

La contemplazione di Colui che ha potuto dire di se stesso: “Io sono mansueto e umile di cuore” (Matteo 11:29) produca e mantenga nei nostri cuori quello spirito d’umiltà che ci fa stimare il nostro fratello superiore a noi stessi. Cristo è il modello perfetto, e noi possiamo avere “lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù” (Filippesi 2:3-8). La gloria di un servitore è servire, non essere servito.

Alla fine della cena, il Signore, con una grazia perfetta, avverte il suo caro discepolo Simon Pietro della terribile prova che l’attende, prima che finisca la notte. Alcune ore dopo, al canto del gallo, Pietro avrebbe scoperto di non avere più forza dei suoi fratelli per tener fermo nell’ora della prova (Matteo 26:33). Dopo quell’esperienza, non avrà più l’idea di essere superiore a loro o di amare il Signore più degli altri, perché la consapevolezza delle nostre debolezze, unita all’amore e alla stima per i nostri fratelli, amati dal Signore esattamente come noi, può renderci compassionevoli e comprensivi nei loro confronti.


Lo spirito settario (Luca 9: 49, 50)

Pur avendo appena manifestato la loro incapacità di scacciare lo spirito, i discepoli non riuscivano ad accettare che qualcun altro fosse capace di farlo. Così Giovanni, parlando a nome di tutti, prende apparentemente le difese del Maestro, ma dalle sue parole si comprende che i discepoli ricercavano la loro propria gloria. “Abbiamo visto un tale che scacciava i demòni nel tuo nome, e gliel’abbiamo vietato perché non ti segue con noi”. Non avrebbero dovuto avere maggior rispetto? Dio è sovrano e chi siamo noi per interferire nella libera scelta dei suoi strumenti per compiere i suoi disegni? Nessuno di noi ha il privilegio esclusivo del pensiero di Dio, e se il Signore si serve di altre persone al di fuori di noi per compiere la sua opera ce ne dobbiamo rallegrare. L’apostolo Paolo ne dà un esempio sorprendente ai Filippesi. Si rallegrava che il Vangelo fosse predicato, anche se alcuni lo facevano per invidia e per rivalità (Filippesi 1:15-18). 

Troviamo un esempio paragonabile all’attitudine di Giovanni nella storia d’Israele nel deserto. Quando Eldad e Medad profetizzano in mezzo al campo, Giosuè ne è indignato e vuole fermarli: “Mosè, signor mio, non glielo permettere!”. Allora Mosè manifesta la profondità della sua grazia verso il popolo, rispondendo: “Sei geloso per me? Oh! Fossero pure tutti profeti nel popolo dell’Eterno, e volesse l’Eterno mettere su di loro il mio spirito!” (Numeri 11:28, 29).

Così, i discepoli avevano in una prima occasione manifestato il loro orgoglio personale, ed ora svelano il loro orgoglio di gruppo. Il Signore risponde a Giovanni: “Non glielo vietate, perché chi non è contro di voi è per voi” (v. 50); o come è scritto in Marco 9:40: “Chi non è contro noi è per noi”. Ma, il Signore ha anche detto: “Chi non è con me è contro me; e chi non raccoglie con me, disperde” (Luca 11:23). Tutto quello che è fatto senza raccogliere le anime intorno a Cristo, come unico centro, è un lavoro che andrà perduto!


Il bisogno della grazia (Luca 9:51-56)

Questa quarta circostanza contiene un’altra importante lezione per noi. Attraversando la Samaria per salire a Gerusalemme (Luca 17:11), il Signore non è ricevuto dagli abitanti di un villaggio. Questa provincia d’Israele era abitata da gente di varie popolazioni fin dal tempo della deportazione delle dieci tribù sotto Salmaneser, re d’Assiria (2 Re 17:24). Quei popoli avevano mescolato il culto del vero Dio all’adorazione dei loro idoli e avevano scelto Garizim come centro religioso (Giovanni 4:20). 

Il Signore è così respinto da questo villaggio della Samaria perché era diretto a Gerusalemme. Anche in questa circostanza, Giacomo e Giovanni – che pure hanno tanti lati positivi nel loro ministerio e nella loro vita personale – sembrano estranei al pensiero del Signore. Essi propongono di far scendere il fuoco dal cielo sui quei Samaritani perché siano distrutti. “Signore, vuoi che diciamo che un fuoco scenda dal cielo e li consumi?”(v.54). Non è più la contesa per sapere chi occupa il primo posto, né il desiderio di monopolizzare il potere per appagare un orgoglio collettivo. Qui si tratta dell’assenza della grazia, alleata allo spirito di dominio. 

Il nostro cuore naturale è più pronto a giudicare che a perdonare! I grandi di questo mondo usano e abusano dell’autorità loro affidata, poiché essere in posizione elevata è esaltante, ma terribilmente insidioso. Cristo solo è l’ammirevole eccezione.

Giacomo e Giovanni pensano di prendere così le difese degli interessi del loro Maestro! Alcuni giorni dopo, Pietro, afferrata la spada, colpirà Malco, il servo del sommo sacerdote, e lo farà anch’egli nell’intento di difendere il Signore (Giovanni 18:10)!

Era proprio in Samaria che il profeta Elia aveva un tempo fatto scendere del fuoco dal cielo, per ben due volte, sugli inviati dell’infedele re Acazia (2 Re 1:10, 12). Là il carattere del ministero e dei miracoli di Elia era quello del giudizio e della giustizia, ben diverso dalla missione e dallo scopo del Signore: quello salvare gli uomini, e non distruggerli, poiché “Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Giovanni 3:17). 

Se i discepoli avessero compreso il pensiero di Dio, si sarebbero sottomessi tranquillamente. Avevano forse dimenticato che, circa tre anni prima, percorrendo in senso inverso la stessa strada con Gesù, si erano fermati al pozzo di Sicar? Là i campi erano già maturi per la mietitura (Giovanni 14:35). Dopo la morte del Signore, la Samaria sarà la prima provincia che riceverà l’Evangelo, dopo la Giudea e Gerusalemme (Atti 8:;5, 14-17).

Come il nostro Maestro, che ci ha lasciato un modello perché seguiamo le sue orme, siamo invitati a sopportare, senza vendicarci, le sofferenze ingiuste che possiamo incontrare da parte del mondo nel sentiero dell’ubbidienza (1 Pietro 2:21-23). L’apostolo Paolo, per grazia, ha seguito molto da vicino il suo esempio e poteva dire: “Sopporto ogni cosa per amore degli eletti” (2 Timoteo 2:10).