Nella prima parte della Lettera ai Romani (fino al v. 11 del cap. 5), sono presentati, in dettaglio, gli effetti del peccato che ha corrotto la razza umana. Nello stesso tempo troviamo anche il mezzo che Dio ha dato per giustificare il colpevole. Questa parte tratta dei peccati, delle azioni manifeste, degli atti individuali che sono dei colpe contro il Dio santo; e nessuno è immune da queste trasgressioni. La Lettera allora rivela che il credente ottiene la pace con Dio, perché Gesù Cristo ha compiuto la giustificazione per tutti quelli che credono “in Colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore, il quale è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (4:24, 25).
La presenza del peccato nel credente
Ma, dopo la metà del cap. 5, il soggetto degli errori, delle cattive azioni non è più trattato. Si tratta invece di capire come possano compiersi tali atti nella vita e nell’esperienza di un figlio di Dio. Perché esistono delle inclinazioni cattive, nel cuore di un cristiano serio? Come mai potrebbe commettere il male, quando vuole fare il contrario?
Che accadano delle anomalie così desolanti è l’esperienza pratica di tutti quelli che seguono Cristo, anche di quelli che lo seguono con devozione, che attraversano delle persecuzioni per la loro fede. Tutti noi ci rendiamo conto che dei cattivi pensieri nascono spontaneamente in noi, contro la nostra stessa volontà e senza che possiamo attribuirli a influenze esterne. Nascono dentro di noi, dal peccato che abita in noi.
La luce di Dio rivela chiaramente quelli che siamo in realtà; il male, che è dentro di noi, può emergere addirittura nei loro momenti di preghiera e di lode. Alcuni prendono misure severe per estirpare queste tendenze malvagie, cercano di soffocarle, di dominarle o dimenticarle; ma in questa lotta che ingaggiano con loro stessi, escono sempre sconfitti.
Queste battaglie con loro stessi si riveleranno sempre vane: se qualche volta sembra di vincere, è sempre una vittoria momentanea. La radice del peccato non è stata estirpata, nemmeno indebolita. Tutti gli sforzi per distruggerla, con digiuni o punizioni che potremmo imporci, non portano che al fallimento.
L’indifferenza riguardo al peccato
Queste esperienze di sconfitta a volte portano, quando non conosciamo l’insegnamento della Parola al riguardo, ad una reazione contraria: ci abituiamo a questo stato di cose, come se fosse inevitabile. La presenza e l’attività del peccato non sono più considerate come qualcosa di serio. Si pensa: se non riesco a liberarmi dal peccato che è in me, non posso farci niente ed è inutile che me la prenda. Dio è pieno di grazia, il Suo amore è infinito; il sacrificio di Cristo risponde a tutto; la mia condotta come credente non deve darmi tanti problemi….
La Lettera ai Romani condanna questo atteggiamento fatalista, e nello stesso tempo ci fornisce la soluzione vera a questo problema pratico della vita cristiana. “Dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata, affinché, come il peccato regnò mediante la morte, così pure la grazia regni mediante la giustizia a vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (5:20, 21). Il peccato domina l’uomo e lo porta al disastro, ma la grazia di Dio è superiore a tutte le cattive influenze che assillano il cristiano; questa grazia, di conseguenza, conduce alla vittoria. Tuttavia, non si può vincere se non si combatte sul fronte che la Parola di Dio approva.
È chiaro che il trionfo finale della grazia non dev’essere invocato per scusare una negligenza. Paolo fa una domanda: “Rimarremo forse nel peccato, affinché la grazia abbondi? No di certo! Noi che siamo morti al peccato, come vivremmo ancora in esso?” (6:1, 2). Un credente che pecca abitualmente rinnega completamente la potenza liberatrice di Dio. La dominazione simultanea del peccato e della grazia non si accordano con la natura divina; e il fatto che un uomo non possa liberarsi da solo dal potere del peccato, non significa che Dio non lo libererà mai.
Forse non ce n’è nessuna forma di peccato più diffusa del compiacersi di se stesso. “Rimanere nel peccato” non significa necessariamente camminare nel sentiero proibito di un peccato grossolano; può significare semplicemente che viviamo per noi stessi, senza preoccuparci di Dio e della Sua volontà. Questo sottile carattere di male si è manifestato fin dal principio. Eva ha agito in vista del proprio interesse, secondo il proprio desiderio, senza alcun riguardo all’ordine categorico di Dio, anzi sfidandolo. In altre parole, ha cercato di compiacere se stessa. Un movente così egoista è l’essenza stessa del peccato.
Del solo uomo che è stato senza peccato, il Signore Gesù, ci è detto che “non compiacque a se stesso” (Romani 15:3). Il credente è chiamato ad imitare non “il primo”, ma “il secondo Uomo”, non vivendo per sé stesso, ma per la gloria di Dio!
W. J. Hocking