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mercoledì 4 ottobre 2023

Gli utili ricordi del passato – Deuteronomio 8 (1/2)

    Il lungo viaggio nel deserto
All’inizio di questo capitolo Mosè invita gli Israeliti a ripensare al lungo cammino del deserto e a considerare i risultati che Dio aveva in vista nel sottoporli a una tale disciplina. Qui, la storia della traversata del deserto è vista da una nuova e interessante angolazione: non più come castigo per la loro incredulità, ma come un mezzo per perfezionarli, istruirli, portarli ad una più profonda conoscenza di quel Dio che li aveva liberati dall’Egitto, per far loro del bene alla fine.
Quarant’anni di prova per sapere quello che avevano “nel cuore” (v. 2); che umiliazione! ma era necessaria perché si rendessero conto che da soli non potevano far nulla, che avevano bisogno delle cure dell’Eterno, che in loro non c’era alcun bene.

    La manna
Così hanno provato la fame, ma poi era arrivata la manna (v. 3) per un intervento miracoloso di Dio. I loro padri non l’avevano conosciuta. Era “il pane” che Dio dava loro da mangiare (Esodo 16:15), un cibo per il deserto, ed essi se ne nutrirono “per quarant’anni, finché arrivarono in terra abitata” (Esodo 16:31-35). “La manna cessò l’indomani del giorno in cui mangiarono i prodotti del paese… il frutto del paese di Canaan” (Giosuè 5:12).
In tutto il libro del Deuteronomio, la manna è ricordata solo in questo capitolo (v. 3 e 16). Era una sostanza bianca, “simile al seme di coriandolo e aveva l’aspetto di resina gommosa (oppure del bdellio)” (Numeri11:7-9). Scendeva di notte, insieme alla rugiada, e si posava sul terreno.

Gli Israeliti dovevano raccoglierne soltanto la dose che serviva per nutrire la famiglia, circa due litri e mezzo a testa (un omer), niente di più. L’eccedenza sarebbe andata a male il giorno dopo, salvo quella raccolta al venerdì che, miracolosamente, si sarebbe conservata anche per tutto il sabato, visto che di sabato non potevano lavorare, quindi nemmeno raccogliere manna.

La manna aveva il gusto, essi dicevano, di schiacciata fatta col miele (Esodo 16:3). Un po’ più tardi dissero che rassomigliava alla focaccia fatta con olio (Numeri 11:8); e verso la fine del viaggio se ne nausearono: “Perché ci avete fatti salire fuori d’Egitto per farci morire in questo deserto? Poiché qui non c’è né pane né acqua, e siamo nauseati da questo cibo tanto leggero” (Numeri 21:5). Quando la manna non soddisfaceva più, si erano messi ad elaborarla, riducendola in farina, cuocendola in pentole o facendone delle focacce.

La manna rappresenta sia Cristo, nutrimento dell’anima durante il nostro pellegrinaggio in questo mondo, sia la Parola di Dio che ci parla di Lui. Se perdiamo di vista le promesse del Signore, e la sua gloriosa Persona non occupa più un posto preminente nei nostri affetti, anche noi corriamo il rischio di sviarci “dalla semplicità e dalla purità rispetto a Cristo” (2 Corinzi11:3) e di farci un Signore a modo nostro, complice delle nostre miserie. E quando perdiamo il gusto della sua Parola, finiamo per adattarla ai nostri gusti, e prendere da essa ciò che ci piace e ci esalta, eliminando ciò che ci giudica e ci condanna.

La manna non era solo un mezzo di sopravvivenza e una dimostrazione concreta delle cure di Dio; serviva anche ad insegnare che “l’uomo non vive soltanto di pane – come il Signore ricorderà a Satana – ma “di tutto quello che procede dalla bocca del Signore” (v. 3).

La manna, poi, sebbene scendesse come dal cielo, non era “il vero pane”. Quelli che ne hanno mangiato sono morti. Soltanto il Signore Gesù è il vero pane che scende dal cielo e dà vita al mondo. “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete” (Giovanni 6:32-35).

Un altro segno delle cure di Dio gli Israeliti l’avevano avuto nel fatto che il loro vestito non si era logorato per quei quarant’anni e che i loro piedi non si erano gonfiati nelle lunghe ed estenuanti marce (v. 4). Al capitolo 29 versetto 5 Mosè ricorda che anche i loro sandali erano durati per tutto quel tempo grazie all’intervento dell’Eterno.

    Insegnamento e castigo
Quel lungo viaggio nel deserto era stato un castigo, ma lo scopo di Dio era il bene del popolo, e la sua correzione era quella di un padre verso il figlio che ama (v. 5). Le esperienze fatte dovevano formarli, istruirli, e portarli a vivere nel timore di Dio (v. 6). Un timore che non è paura, ma rispetto e sottomissione verso un Dio grande e tremendo che li aveva messi in una posizione di straordinario privilegio, e in una relazione intima come è quella di figli col loro padre.

Anche il cristiano è sottoposto alla disciplina del suo Padre celeste; e la deve apprezzare. “Non disprezzare la disciplina del Signore e non ti perdere d’animo quando sei da Lui ripreso; perché il Signore corregge quelli che Egli ama e punisce tutti coloro che riconosce come figli” (Ebrei 12:5-6). Qual è il figlio che il padre non castiga? Il castigo di Dio è per noi un segno che siamo suoi figli. Non dobbiamo dunque scoraggiarci delle sue eventuali riprensioni, ma accettarle con umiltà e sottomissione perché gli scopi del Padre sono sempre gloriosi ed ogni sua azione verso di noi è mossa da un amore infinito.