Un nome per testimoniare - una triste situazione di vita (2)
Rut: non solo parole
Spesso ci sentiamo in dovere di dire qualcosa a chi soffre come Naomi.
D’altra parte, i credenti, a rigor di logica, dovrebbero
essere le persone più adatte a consolare chi soffre, in quanto sono essi stessi
oggetto continuo di consolazione da parte di Dio “il quale ci consola in ogni
nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi
stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque
afflizione...” (2 Co 1:4).
Anche su un argomento spinoso come la morte, Paolo dimostra che il credente ha una consolazione da portare:
“Fratelli, non vogliamo che siate nell’ignoranza riguardo a
quelli che dormono, affinché non siate tristi come gli altri che non hanno
speranza.…Consolatevi dunque gli uni gli altri con queste parole” (1Te 4:13,
18).
Nella Scrittura ci sono molti passi che sono di vero incoraggiamento per il credente che sta attraversando una prova difficile.
Ma li utilizziamo sempre nel modo giusto e con la giusta
sensibilità?
O rischiano di essere freddi enunciati che invece di aiutare
il prossimo, creano una barriera ancora più impenetrabile?
“Se un fratello o una sorella non hanno vestiti e mancano
del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: «Andate in pace, scaldatevi e
saziatevi», ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che cosa serve?”
(Gm 2:15-16).
Insomma, Non possiamo dire a qualcuno che soffre: “Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi”(Fl 4:4) e poi tornare ai nostri affari come se niente fosse.
Se vogliamo aiutare Mara a ritrovare la dolcezza di Naomi
non abbiamo scorciatoie, se non quello di essere solidali con lei.
“Il cuore del saggio è nella casa del pianto; ma il cuore
degli stolti è nella casa della gioia” (Ec 7:4).
“Rallegratevi con quelli che sono allegri; piangete con quelli che piangono. Abbiate tra di voi un medesimo sentimento” (Ro 12:15-16).
Non possiamo aiutare il nostro fratello inondandolo di versetti “dall’alto”. Dobbiamo sederci al suo fianco. Quando è ora di piangere, bisogna avere il coraggio di piangere.
Questo atteggiamento empatico è fondamentale per non fare la
fine degli amici di Giobbe che, invece di lenire il dolore del loro amico, lo
acuirono. Dio non vide infatti di buon occhio il loro maldestro tentativo
consolatorio:
“Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, il SIGNORE
disse a Elifaz di Teman: «La mia ira è accesa contro di te e contro i tuoi due
amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio
servo Giobbe»” (Gb 42:7).
Una semplice dimostrazione di saccenza indispettisce ma
l’ammissione onesta di chi si rende conto che non siamo in grado di capire
tutto ma confidiamo comunque nel Signore, viene apprezzata da chi soffre.
In un passaggio tratto dal libro “Lettere a Malcolm”di C.S.
Lewis leggiamo:
“Alcuni anni fa, quando sono stato io a trovarmi in difficoltà, me lo hai anche detto esplicitamente. Anzi, mi hai scritto: «So di restare al di fuori. La mia voce riesce a stento a raggiungerti». E quello fu uno dei motivi per cui la tua lettera fu per me la stretta di mano più vera e sincera di qualsiasi altra che abbia mai ricevuto”.
Lewis dipinge con questa frase la condizione dell’uomo che, con estrema sensibilità, si rende conto di non riuscire a penetrare nel dolore dell’amico e non può fare altro che ammettere questa difficoltà. Questo umile punto di partenza può essere la base per aiutare davvero.
Dobbiamo ricordarci che il credente che soffre, molto
spesso, conosce già i versetti che noi utilizziamo per cercare di consolarlo.
Ciò che realmente gli manca in quel momento è la lucidità per applicare la
Scrittura alla propria particolare situazione.
Il nostro compito quindi non è solo quello di snocciolare versetti ma quello di aiutare il nostro fratello a recuperare la giusta visione delle cose e a riporre la propria fede nel Signore. E questo richiede tempo.
Oggi, in un mondo che va di fretta anche la consolazione
viene elargita come il cibo in un fast food. È più comodo recitare dei versetti
a memoria piuttosto che dedicare del tempo ad ascoltare davvero qualcuno.
Ma come sarebbe riuscita Naomi a rivedere Dio come un Padre amorevole e non come un giudice?
Non solo attraverso parole frettolose ma attraverso Rut la
Moabita che le avrebbe mostrato l’amore di Dio in maniera pratica.
Quando soffriamo, non abbiamo solo bisogno di qualcuno che
ci ricordi che Dio ci ama ma di qualcuno che ci mostri l’amore di Dio per noi.
L’empatia di Rut con Naomi è quasi totale:
“Rut rispose: Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via
da te; perché dove andrai tu, andrò anch’io; e dove starai tu, io pure starò;
il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai
tu, morirò anch’io, e là sarò sepolta. Il SIGNORE mi tratti con il massimo
rigore, se altra cosa che la morte mi separerà da te!” (Ru 1:16-17).
Mentre Naomi, nel suo dolore, aveva tentato di allontanare Rut e rimandarla al suo paese, Rut, sopportando le parole amare della suocera, decise di ascoltare la voce del Signore che le indicava il modo più giusto di aiutarla.
Le parole di Rut non sono un semplice enunciato teologico
con il quale accettava il Dio di Naomi ma sono parole che dimostrano una
trasformazione interiore. Nel momento in cui dichiarò la sua fede nel Dio di
Israele, la dimostrò in maniera pratica nel suo solenne impegno con Naomi.
La giovane Moabita Rut poteva rifarsi una vita in Moab ma preferì rinunciare a sé stessa per aiutare sua suocera. E in tale rinuncia anticipa di secoli ciò che il Nuovo Testamento ci insegna sul modo in cui l’amore di Dio ci spinge a operare:
“Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua
vita per noi; anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli” (1Gv
3:16).
“La religione pura e senza macchia davanti a Dio e Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni, e conservarsi puri dal mondo” (Gm 1:27).
Dio non operò un miracolo eclatante per consolare la vedova Naomi ma le diede l’amore di Rut.
Dio manifesta sé stesso a chi soffre proprio attraverso
altri esseri umani che si lasciano utilizzare come strumenti nelle sue mani.
Quegli esseri umani possiamo essere proprio noi!
(segue)