di A. Apicella
Il giardino di Eden è ormai precluso all’uomo. I cherubini con la spada fiammeggiante ne custodiscono l’accesso. L’uomo, peccatore, è fuori, a lavorare col sudore della sua fronte una terra ingrata che gli avrebbe prodotto spine e triboli. Caino è un lavoratore della terra. Niente di male se non avesse l’idea di offrire all’Eterno i frutti del suo lavoro, prodotti da quel suolo maledetto, e la presunzione che quell’offerta gli avrebbe consentito di instaurare col Creatore un rapporto di pace.
Noi non sappiamo quale fosse, allora, il livello di conoscenza di Dio; ma un fatto era noto: Dio aveva ucciso un animale per procurare ad Adamo e ad Eva un “abito” che consentisse loro di sopportare la sua santa presenza senza la “vergogna” e le tristi conseguenze della loro nudità. Dunque, una vittima innocente era stata sacrificata al posto dei colpevoli e in loro favore. Non per niente Abele offriva a Dio i primogeniti del suo gregge e il loro grasso, a conferma che i Suoi diritti gli erano ben noti. Ma era così difficile per Caino procurarsi un agnello da offrire a Dio?
Dio non tiene mai segrete le sue sante esigenze; in ogni tempo le ha rivelate all’uomo in modo chiaro e senza equivoci. Caino è consapevole delle “preferenze” del Creatore, ed è anche esortato, consigliato, spinto a rinunciare alla propria ostinazione per percorrere i sentieri dei pensieri di Dio dove c’è la sua approvazione, il perdono, la vita. “Se agisci bene, non rialzerai il volto? Ma se agisci male, il peccato sta spiandoti alla porta (*), e i suoi desideri sono rivolti contro di te; ma tu dominalo!” (Gen. 4:6-7).
Caino si oppone a Dio e inverte i ruoli. Invece di rinunciare alla propria volontà e sottomettersi a quella di Dio, pretende che sia Dio a rinunciare alle proprie sante esigenze per accettare il punto di vista di una creatura decaduta e peccatrice come lui era!
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(*) E’ interessante notare che l’espressione “il peccato sta spiandoti alla porta” può anche essere tradotta con “il sacrificio per il peccato è coricato alla porta”. Se così va letto, significa che Dio indicava chiaramente a Caino quale fosse il mezzo per ottenere il perdono per l’incredulità e l’ostinazione da lui mostrata fino ad allora. La stessa “vittima” che rendeva gradito a Dio suo fratello Abele avrebbe reso gradito anche lui. E Dio la metteva, nella sua grazia, a sua completa disposizione. Le espressioni che seguono nel v. 7 si riferiscono comunque al peccato.
E’ logico che Dio non possa guardare “con favore” né lui né la sua offerta; “la ribellione è come il peccato della divinazione e l’ostinatezza è come l’adorazione degli idoli” (1 Sam. 15:23). Caino è accecato dalla gelosia, dall’invidia, dall’odio. Non può amare il suo fratello perché non ama Dio e non osserva i suoi comandamenti (1 Giov. 5:2); non può avere pace perché non è in pace con Dio. Aspetta solo il momento propizio per tendere un tranello ad Abele e ucciderlo.
E il “giorno malvagio” arriva. Ora, il sangue di Abele “grida” a Dio dalla terra sulla quale è stato versato. Quel Dio a cui Caino si è rifiutato di sottomettersi, ma al quale deve, volente o nolente, rendere conto, gli si fa incontro e gli pone due domande: “Dov’è Abele, tuo fratello?” e “Che hai fatto?” (Gen. 4:9,10). Alla prima risponde “Non lo so”, alla seconda non risponde nemmeno, perché si avvede che Dio è al corrente di tutto.
Così, il Dio santo e un uomo peccatore, il Dio che dà la vita e un uomo che l’ha violentemente tolta, sono lì, uno di fronte all’altro. E il Giudice di tutta la terra pronuncia la sua condanna: “Ora tu sarai maledetto, scacciato lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano”.
Passano i secoli, e un giorno, sotto un portico di tribunale c’è di nuovo un uomo davanti a Dio. Ma questa volta i termini sono capovolti. Il giudice è Pilato, uomo corrotto e ingiusto, con la coscienza macchiata dei più efferati delitti. E l’imputato è nientemeno che Dio; nell’esteriore in forma di uomo, ma avendo fornito le prove più evidenti e incontestabili della sua natura divina. “Che cosa hai fatto?”, chiede Pilato al Signore Gesù (Giov. 18:35). Esattamente la stessa domanda che Dio aveva rivolto a Caino 4000 anni prima! Quello che aveva fatto era evidente a tutti, e Pilato lo sapeva: aveva guarito i malati, risuscitato i morti, insegnato l’amore, la giustizia, l’umiltà; era “andato dappertutto facendo del bene”, come dice Pietro a Cornelio (Atti 10:38). Avrà il coraggio il giudice di pronunciare una condanna? Lui ha “il potere” - almeno così crede - di liberarlo o crocifiggerlo, e decide di crocifiggerlo.
L’omicidio di Abele è una figura dell’uccisione del Signore. Anche allora era l’empio che uccideva il giusto, il profano che si levava contro il fedele per metterlo a morte. Ma la morte del Signore rientrava in un preciso progetto di Dio per la nostra salvezza. Era Dio che aveva dato autorità a Pilato per condannare il suo Figlio, e il Figlio deponeva volontariamente la propria vita. Gli uomini non sono che delle pedine per il compimento di questo meraviglioso disegno d’amore e di grazia, anche se ciò non sminuisce per nulla la loro responsabilità e la loro colpa.
E come risplende questa grazia di Dio! La condanna di Caino la meritavano Pilato e i capi sacerdoti, la meritava e la merita tutta l’umanità. Ma il Signore muore perché Dio possa assolvere chiunque crede. Il suo sangue “parla meglio del sangue di Abele” (Ebrei 12:24); non “grida dalla terra” per invocare il castigo sui malvagi, ma invoca il perdono anche sui suoi uccisori!
Anche gli agnelli offerti da Abele sono una figura di Cristo, e il loro sangue versato una figura del Suo sangue prezioso; perché il Signore è, nello stesso tempo, vittima e sacerdote, colui che offre e ciò che viene offerto. “Egli è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo col suo proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna” (Ebrei 9:12).
Tratto dal Messaggero Cristiano