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domenica 1 giugno 2014

Giuseppe - Se finisse tutto qui?

Molte volte quando affrontiamo storie come quella di Giuseppe, che conosciamo fin dalla nostra infanzia, sembra quasi che non ci sia più  nulla da dire. Forse valutiamo anche le circostanze difficili incontrate dal personaggio, avendo la prospettiva del  lieto fine che già sappiamo.
 Proviamo per un attimo ad isolare alcuni fatti con l’aiuto della suddivisione in capitoli.
Se prendiamo ad esempio il capitolo 40 della Genesi troviamo Giuseppe già in prigione a causa della falsa accusa della moglie di Potifar e alla fine del capitolo lo lasciamo ancora in prigione.  Cosa è cambiato nella sua vita? Nulla.
Si può affermare che Giuseppe fosse in una fase della sua vita che potremmo definire “di attesa”. Credo che la Parola di Dio non ci riveli con esattezza quale fosse l’entità della pena che lui doveva scontare. Era un detenuto che, utilizzando un linguaggio moderno, non aveva  “la certezza della pena”. Forse la  sua permanenza in quella prigione era a scadenza indeterminata, la sua liberazione era legata  a tutta una serie di circostanze  che in buona parte  non dipendevano da lui.  Giuseppe era in attesa che accadesse qualcosa,  che un avvenimento cambiasse la sua situazione, aspettava di uscire dalla prigione, Giuseppe attendeva  che Dio intervenisse nella sua vita. Giuseppe era in attesa. Tutti noi dobbiamo attendere. Tutti noi siamo in attesa di qualcosa o qualcuno, tutti noi abbiamo delle aspettative.
Per molti di noi, e per me sicuramente, l’attesa è uno dei lati che ci piace meno della vita, ma è una  parte che caratterizza una percentuale non trascurabile della nostra esistenza, dalle cose grandi ai dettagli.
Qualche esempio?
Quando siamo giovani attendiamo di terminare gli studi e in questa fase attendiamo di sostenere  degli  esami, quando li abbiamo sostenuti aspettiamo per sapere se sono stati  superati.
Attendiamo di trovare un lavoro e aspettiamo che qualcuno ci chiami per un colloquio e nel frattempo attendiamo di sapere com’è andato.
Attendiamo di sapere se Dio nei suoi piani ci concederà di formare una famiglia, attendiamo di sapere con quale persona Dio desidera che condividiamo una famiglia.
Quando ci  sposiamo attendiamo di comprendere se Dio ci donerà dei figli e quando il concepimento è avvenuto ci sono 9 mesi di attesa, prima che possiamo abbracciarli.
Cosa è di noi nei momenti di attesa? Confidiamo in Dio, lasciamo che Lui ci indichi la via? Dimostriamo dipendenza in preghiera? Diamo fiducia incondizionata a Dio? Oppure dimostriamo ansia, impazienza, denotando poca fede e poi, quando ci è possibile, se le circostanze non vanno come noi auspichiamo, cerchiamo di prendere in mano la situazione e di cambiare le cose?
 La prigione è stata una scuola per insegnare a Giuseppe ad essere dipendente da Dio ed è stata un continuo test alla sua fede.  Nella storia di Giuseppe c’è però qualcosa di più profondo. Finora abbiamo parlato di attese che definiremmo “normali”, fisiologiche, ma l’attesa di Giuseppe era  senza senso, ovvero un’attesa alla quale era difficile trovare una spiegazione logica e anche spirituale. Perché si trovava in quella prigione?
Quando svolgevo il servizio militare, facevo l’autista del comandante, dovevo accompagnarlo in tutte le sue uscite. Arrivavamo al luogo dove lui doveva essere presente e io restavo in macchina ad aspettare. Ricordo in particolare che in alcune circostanze, quando vi erano delle riunioni di tipo militare, non conoscevo né l’oggetto della discussione, né il tempo della stessa. Potevo fare solo una cosa durante questa attesa:  aspettare e tenere la radio accesa per sapere se il comandante avesse avuto bisogno di qualcosa. Se qualcuno mi avesse chiesto perché mi trovavo in quel luogo e quanto tempo dovessi rimanerci,  non avrei saputo rispondere.
Ci sono dei momenti della nostra vita in cui non sappiamo dare una risposta al perché ci troviamo ad attraversare determinate circostanze. Ci sono momenti in cui nulla sembra avere senso. Ci sono cose difficili, che magari arrivano improvvisamente, che sconvolgono la nostra vita, che non sappiamo quanto dureranno, che non sappiamo se si risolveranno, che non possiamo cambiare.  Possiamo anche  avere una buona coscienza, essere consapevoli che non ci troviamo a subire le conseguenze della disciplina paterna per errori commessi. Potremmo magari affermare come Giuseppe “ non ho fatto nulla per essere messo in questa fossa” v. 15. Questo potrebbe portarci ad essere confusi, frastornati, scoraggiati. Perché Dio permette questo nella mia vita? Perché non c’è una soluzione? Perché Dio non interviene? Perché questa prova non finisce?.. e non possiamo fare altro che aspettare!   
Cosa fare in questa attesa? Essere pronti. A cosa? Ad essere utili agli altri. Nella storia di Giuseppe vi erano due uomini con lui in prigione: il coppiere ed il panettiere. Persone turbate (v.6), tristi (v.7). Attraversiamo circostanze difficili e ci sono diverse persone che ci passano accanto e magari, se non avessimo attraversato quelle esperienze, non avremmo mai incontrato certe persone. Cosa facciamo? Giuseppe si è occupato di loro. Ha dato una risposta ai bisogni del loro cuore secondo il pensiero di Dio.  Giuseppe era pronto a servire, era pronto a portare anime a Dio. Credo ci sia una grande lezione per tutti noi. Dio può utilizzare le circostanze della nostra vita, che ci sembrano le peggiori da un punto di vista umano, per trarre le cose migliori per la Sua gloria. Giuseppe stava subendo una grande ingiustizia, non sapeva nulla del suo futuro, ma non era questa la sua principale preoccupazione, era  occupato a servire il Suo Dio.
Il desiderio di Giuseppe era di uscire da quella prigione. In questo contesto Giuseppe dice al coppiere del re: “ricordati di me quando sarai felice, e sii buono verso di me, ti prego; parla di me al Faraone e fammi uscire da questa casa” v.14. Qualcuno potrebbe pensare, Giuseppe forse per un attimo  ha creduto di avere trovato nel coppiere la soluzione ai suoi problemi. Penso che tutti noi quando attraversiamo delle prove particolari desideriamo che Dio intervenga in potenza.
Subito dopo però c’è silenzio, c’è calma, non vediamo frenesia, preoccupazione, ansia.
Io credo che  al suo posto, subito dopo aver parlato al coppiere avrei iniziato a pormi tanti interrogativi. “Il coppiere si ricorderà di me?”, “Quando si ricorderà di me?” “Utilizzerà le parole giuste con il Faraone?”, “…il Faraone come reagirà?”.
Il capitolo 40 si conclude in un modo solenne “Il gran coppiere però non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò” v. 23.
Cosa poteva fare Giuseppe a questo punto? Aspettare e ancora aspettare. Quanto? Giorni? Mesi? No anni, almeno 2.
 Il capitolo 40 si conclude e per lui nella sostanza non è cambiato nulla. Cosa ci rimane allora da questo episodio?
-          Dipendenza totale da Dio
-          Fedeltà
-          Equilibrio
-          Una fede che brilla
-          Disponibilità a servire Dio anche in circostanze difficili
-          Disponibilità verso gli altri anche quando umanamente ci occuperemmo solo di noi stessi.
Sono queste alcune delle cose che rimangono e che hanno valore agli occhi di Dio. E’ ciò che Lui desidera dai suoi quando ci sono delle attese che si prolungano, circostanze che non capiamo e che mettono alla prova la nostra fede.
“Riponi la tua sorte nel Signore, confida in lui, ed egli agirà … Sta in silenzio davanti al Signore e aspettalo” Salmo 39:5-7.
“E tu quando dici che non lo scorgi, la tua causa gli sta davanti; sappilo aspettare!”. Giobbe 35:14


Cesare Casarotta