“Sopportate con pazienza la mia parola di esortazione”
(Ebrei 13:22)
Una delle caratteristiche della Lettera agli Ebrei è di essere “una parola di esortazione” e in particolare un’esortazione alla fede. L’autore termina con queste parole: “Ora, fratelli, sopportate con pazienza, vi prego, la mia parola di esortazione perché vi ho scritto brevemente”.
I credenti Ebrei avevano sostenuto “una lotta lunga e dolorosa”. Erano stati “esposti agli oltraggi e alle vessazioni” e avevano accettato con gioia la ruberia dei loro beni (10:32-34). Tutto questo serviva per la loro correzione (12:7), ma alcuni erano stanchi e scoraggiati, con “le mani cadenti e le ginocchia vacillanti” (12:12), e avevano bisogno di costanza e di fiducia.
Questa Lettera rispondeva molto bene al loro stato e ai loro bisogni spirituali; con esortazioni e incoraggiamenti, parlando dal principio alla fine della persona di Cristo, gli Ebrei sono invitati a considerare Lui, “l’apostolo e il sommo sacerdote della fede” (3:1). Questa Lettera incomincia esaltando, come il primo capitolo della Lettera ai Colossesi, la gloria del Signore, splendore della gloria di Dio e impronta della sua essenza (1:3). Poi ce lo presenta come il nostro sommo Sacerdote, con tutte le risorse che abbiamo in Lui grazie al valore del suo sacrificio. È in questa Lettera che troviamo la preziosa esortazione a fissare i nostri sguardi su Gesù (12:2), perché è questo il segreto del cammino di fede. È Lui che ha tracciato il cammino della fede, e che lo ha seguito dal principio alla fine, lo ha aperto per noi attraverso tutti gli ostacoli, e ora simpatizza con le nostre infermità con amore perfetto; quando siamo stanchi e sul punto di venir meno ci dice: “Considerate perciò colui che ha sopportato una simile ostilità contro la sua persona da parte dei peccatori, affinché non vi stanchiate perdendovi d'animo” (Ebrei 12:3).
Al cap. 2 abbiamo una prima esortazione: “Perciò bisogna che ci applichiamo ancora di più alle cose udite, per timore di essere trascinati lontano da esse”. Sono soprattutto le verità che riguardano il Figlio “che è stato fatto di poco inferiore agli angeli, cioè Gesù, coronato di gloria e di onore a motivo della morte che ha sofferto”. È con la sua morte e la sua risurrezione che ha potuto condurre “molti figli alla gloria”, quei figli che non si vergogna di chiamare “fratelli” (2:1, 10, 11).
La Lettera s’indirizza a dei Giudei che prima erano attaccati al loro culto, al santuario terreno, alle cose visibili, ma poi avevano abbandonato quelle cose per ricevere le cose celesti, invisibili ed eterne, dalle quali non dovevano allontanarsi. In tutta la Lettera le cose visibili e materiali sono messe in contrapposizione con quelle invisibili e spirituali. Ricadere nelle prime voleva dire trascurare le cose celesti per ritornare a quelle terrene.
La chiamata degli Ebrei credenti, così come la nostra, era celeste: “Siete partecipi della celeste vocazione”; dovevano quindi considerare Gesù, “l'apostolo e il sommo sacerdote” (3:1) nel cielo. Erano diventati i compagni di Cristo, di un Cristo celeste che rendeva superati tutte le figure e gli ordinamenti terreni. Essi dovevano tener fermo sino alla fine la fiducia che avevano da principio e non cedere alla seduzione del peccato; dovevano fare in modo che non si trovasse tra loro “un cuore malvagio e incredulo” che li allontanasse dal Dio vivente (3:8, 12).
L’incredulità è l’opposto della fede, è l’abbandono di Dio. Al cap. 10 è detto: “Ora, noi non siamo di quelli che si tirano indietro a loro perdizione, ma di quelli che hanno fede per ottenere la vita” (Ebrei 10:39). È la mancanza di fede che impedì agli Israeliti di entrare nel riposo di Dio. Ma ora il riposo di Dio è la è parte di tutti i credenti, un riposo perfetto dopo gli esercizi e le prove del deserto.
Dopo le esortazioni alla fede dei cap. 3 e 4, l’autore pone davanti a noi la risorsa che abbiamo per sopperire alla nostra debolezza; è la Parola che opera in noi e ci porta a giudicare tutto ciò che non è secondo i pensieri di Dio. In ogni momento possiamo far ricorso al Signore Gesù, il nostro sommo Sacerdote, e portare i nostri problemi al trono stesso di Dio, il trono della grazia; e il Dio di ogni grazia ci renderà saldi e ci fortificherà (1 Pietro 5:10). Essendo il Signore alla destra di Dio, noi possiamo avvicinarci al suo trono con fiducia, e là troveremo sempre la grazia e il soccorso che ci sono necessari, perché Dio è “il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione” (2 Corinzi 1:3). Che prezioso incoraggiamento! Avviciniamoci con fiducia, cioè con la certezza di ricevere una risposta divina e perfetta. Il trono della maestà e della gloria è per noi il trono della grazia, il trono del Dio salvatore che è amore.
Gli Ebrei avevano avuto sotto la legge un sommo sacerdote e un sacerdozio, ma questo sacerdote era “soggetto a debolezza” (5:2) e non poteva rimanere nel luogo santissimo alla presenza di Dio. Anche il sacerdozio era imperfetto e non poteva condurre nulla alla perfezione (7:11). Gli Ebrei avevano un santuario, ma un santuario terreno nel quale non potevano entrare. Dio era loro nascosto, ma ora il nostro Sommo Sacerdote è “il Figlio, che è stato reso perfetto in eterno” (7:28), “santo, innocente, immacolato, separato dai peccatori ed elevato al disopra dei cieli”, “seduto alla destra del trono della Maestà nei cieli” (8:1).
I credenti in Cristo hanno la piena libertà di accedere alla presenza stessa di Dio; per questo ci è detto: “Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia” (4:16) e “manteniamo ferma la confessione della nostra speranza, senza vacillare; perché fedele è colui che ha fatto le promesse” (10:23).
Ma il più prezioso incoraggiamento, che sembra emergere sugli altri, è forse questa parola: “Ancora un brevissimo tempo e colui che deve venire verrà e non tarderà” (10:37). È la promessa che il Signore stesso ha fatto ai suoi per consolarli prima del suo ritorno al Padre, per sostenerli nelle loro tribolazioni durante la sua assenza, per rallegrare i loro cuori, occuparli di Lui e rendere viva in loro la speranza del suo ritorno. “Sì, vengo presto!”, Egli ci dice, affinché i nostri cuori gli rispondano: “Amen! Vieni, Signore Gesù!” (Apocalisse 22:20).
La Lettera termina con numerose esortazioni pratiche in rapporto coi pericoli ai quali erano esposti i credenti Ebrei, e ai quali sono esposti i credenti di tutti i tempi.
Dobbiamo fare attenzione “gli uni agli altri per incitarci a carità e a buone opere” (10:24), esortandoci a vicenda, procacciando la pace, l’amore fraterno e l’ospitalità, tenendo in onore il matrimonio, non amando il denaro ma essendo contenti di ciò che si ha, ubbidendo ai nostri conduttori e imitando la fede di quelli che ci hanno preceduto.
Gli Ebrei erano invitati ad uscire “fuori dall’accampamento” (13:13), ad abbandonare il vecchio sistema giudaico e ad andare a Cristo “portando il suo obbrobrio”. Quello era il loro privilegio, ed è il privilegio di ogni credente.
“Or il Dio della pace… operi in voi ciò che è gradito davanti a lui, per mezzo di Gesù Cristo; a lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen”
M. Koeklin