L’umiliazione di Ezechia
2 Cronache 32:24-26
La Scrittura ci riporta una sola mancanza di questo re fedele. Verso la fine di una vita contraddistinta dalla devozione all’Eterno e dalla fiducia in Lui, in mezzo alle prove più dure, Ezechia dovette imparare ciò che vi era nel proprio cuore. “Dio lo abbandonò, per metterlo alla prova e conoscere tutto quello che egli aveva in cuore” (2 Cronache 32:31). Durante la visita degli ambasciatori di Babilonia, egli fu lusingato di essere onorato dai grandi di questo mondo, e cercò di mettersi al loro livello mostrando loro tutti i suoi tesori. Dio riassume il suo comportamento con queste parole: “Il suo cuore s’inorgoglì” (v. 25). Questo era particolarmente grave in un uomo di cui può essere detto che aveva trascorso la sua vita con Dio. Tutto ciò che la grazia di Dio aveva prodotto nel suo cuore, lo rendevano molto responsabile.
Così, Dio gli mandò il profeta Isaia per aprirgli gli occhi sull’errore commesso e annunciargli che tutti i tesori di cui andava fiero sarebbero stati ben presto trasportati nei palazzi di Babilonia, come pure alcuni dei suoi discendenti. Il libro dei Re e quello di Isaia ci raccontano la reazione di Ezechia a questo triste annuncio: “La parola del Signore che tu hai pronunziata, è buona” (2 Re 20:19; Isaia 39:8). Se avessimo solo questi due libri, potremmo pensare che il re fosse contento che il giudizio di Dio sarebbe avvenuto dopo la sua morte, tanto che dice: “Sì, se almeno vi sarà pace e sicurezza durante la mia vita”. Ma il libro delle Cronache ci dice chiaramente: “Ezechia si umiliò dell’essersi inorgoglito in cuor suo: tanto egli, quanto gli abitanti di Gerusalemme” (32:26).
Il libro delle Cronache conferma che, grazie all’umiliazione di Ezechia, il giudizio divino venne rimandato: “L’ira del Signore non si riversò sopra di loro durante la vita di Ezechia” (v. 26).
Nell’umiliazione, la sua corte e il suo popolo si unirono al loro re, come si erano uniti a lui nell’orgoglio e nella mondanità. Dio ne tenne conto. Il giudizio che aveva preannunciato sarà eseguito, ma più tardi. Passerà circa un secolo prima del suo compimento che ebbe luogo per mezzo di Nabucodonosor (Daniele 1).
L’umiliazione di Manasse
2 Cronache 33.10-13
Il racconto che apre il cap. 33 di 2 Cronache ci colpisce. Com’è possibile che un re pio come Ezechia abbia avuto un figlio malvagio come Manasse? E’ detto di lui che “si abbandonò completamente a fare ciò che è male agli occhi del Signore, provocando la sua ira” (v. 6). “Ma Manasse indusse Giuda e gli abitanti di Gerusalemme a sviarsi, e a far peggio delle nazioni che il Signore aveva distrutte davanti ai figli d’Israele” (v. 9). Nella sua pazienza, Dio parlò a Manasse e al suo popolo, per cercare di ricondurli a sé, ma essi non diedero ascolto.
Allora un giudizio immediato si abbatté sul re empio. L’Eterno fece venire contro di lui i capi del re d’Assiria. Manasse fu incatenato e condotto a Babilonia. Noi saremmo portati a dire: ‘Ha avuto ciò che si merita; gli sta bene!’ Ma Dio ha delle risorse che noi non riusciamo ad immaginare. Dal fondo della prigione, nella disperazione, Manasse rientrò in sé e implorò l’Eterno. Ci è detto che “si umiliò profondamente davanti al Dio dei suoi padri, a lui rivolse le sue preghiere” (v.12). “E Dio si arrese ad esse, esaudì le sue suppliche, e lo ricondusse a Gerusalemme”.
Ristabilito nella sua posizione, Manasse produsse ciò che Giovanni Battista chiamerà “frutti degni del ravvedimento” (Luca 3:8). Demolì gli idoli che aveva eretto, e gli altari che erano stati loro consacrati, e cercò di far uscire il popolo da quella via malvagia nella quale per colpa sua si era incamminato. Ma il lavoro fu difficile e inevitabilmente incompleto!
Conseguenze pratiche per noi
Prima di tutto, i quattro racconti che abbiamo esaminato sono per noi un reale incoraggiamento all’umiliazione. “Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio” (1 Pietro 5:6). “Ecco su chi poserò lo sguardo: su colui che è umile, che ha lo spirito afflitto e trema alla mia parola” (Isaia 66:2). Considerando il nostro stato e le nostre mancanze, non dobbiamo forse umiliarci? Dio ci mostra nella sua Parola che non è mai indifferente al pentimento dei suoi. La sua grazia sa apprezzare in giusta misura la realtà del giudizio che siamo disposti a portare su noi stessi. (*)
(*) La vera umiliazione – in seguito ad una mancanza – è l’unico modo per ritrovare la comunione con Dio, e occorre dimostrarla con “dei frutti degni del ravvedimento”. Se l’umiliazione non è completa e profonda ci sarà un giudizio, anche se non immediato. E’ giusto che ci umiliamo quando abbiamo sbagliato o anche quando le condizioni dell’assemblea o di qualche fratello non sono buone, e noi ci rendiamo conto di non essere stati capaci di vigilare e di lavorare perché non si arrivasse a quel punto. Se però vivessimo in una continua umiliazione finiremmo per essere continuamente concentrati su noi stessi e sulle nostre debolezze piuttosto che sulle risorse del Signore, sui suoi privilegi, e sulle sue benedizioni, perdendo la gioia di appartenergli e l’entusiasmo per servirlo (N.d.R.)