Nel cap. 49 della Genesi, dove Giacobbe esprime profeticamente quello
che sarebbe stato l’avvenire dei suoi figli, vi sono delle belle parole
riferite a Giuseppe; di Lui il padre può dire: “Giuseppe è un albero
fruttifero; un albero fruttifero vicino a una sorgente; i suoi rami si stendono
sopra il muro (o più esattamente: al di là del muro)” (Genesi 49:22). Pensando
a Giuseppe come ad una bella figura del Signore Gesù quando era sulla terra,
possiamo pensare che durante la sua vita Egli sia stato davvero un albero
fruttifero piantato vicino a una sorgente; il suo cibo era di fare la volontà
di Dio e portare del frutto alla sua gloria. I suoi rami si sono davvero estesi
sopra il muro. Vi era un muro che ci separava da Dio e con la sua opera questo
è stato superato; vi era un muro di separazione tra Giudei e Gentili, e Lui,
sempre per mezzo della sua opera, lo ha abbattuto, e dei due popoli ne ha fatto
uno.
Se pensiamo a Giuseppe come ad un credente che in una reale comunione
con Dio cresce e porta frutto, le parole di Giacobbe le possiamo applicare a
noi e trarne degli insegnamenti.
Normalmente, un muro rappresenta un ostacolo per la crescita di un
albero; se l’albero è debole, non radicato, c’è il rischio che il suo sviluppo
sia interrotto o deviato; se invece l’albero ha radici profonde riesce a
crescere e ad andare oltre il muro. A volte, alberi secolari riescono a fare
delle crepe persino nei muri in cemento. Da un certo punto di vista, la vita di
Giuseppe è stata un susseguirsi di “muri”, o prove, nelle quali ha sempre
dimostrato di rimanere vicino alla sorgente.
Eccone alcuni.
I muri della cisterna (Genesi 37:12-28)
In questa situazione Giuseppe ha dovuto affrontare un rifiuto totale
da parte dei suoi fratelli; si è dovuto
rendere conto di non essere per niente accettato dalla propria famiglia, e finì
per essere venduto come schiavo. Che cosa difficile da mandare giù, da
superare, quando capita di avere rapporti turbolenti coi propri familiari,
magari senza avere fatto nulla di male. Anche se la Bibbia non entra in
dettagli specifici, sicuramente in quei momenti Giuseppe avrà provato
dell’angoscia profonda. Al cap. 42 v. 23 scopriamo, per bocca del suo fratello
maggiore Ruben, cosa videro i suoi
fratelli: “Vedemmo la sua angoscia quando egli ci supplicava, ma non gli demmo
ascolto”. Qualcuno può aver provato delle sensazioni di aridità, di amarezza,
di angoscia simili a quelle di Giuseppe; può essersi trovato come in una
cisterna senz'acqua, quando l’unica risorsa è fortificarsi nel Signore che darà
quanto necessario per superare l’ostacolo. Per bocca di Isaia, Dio dice: “Anche
se le madri dimenticassero, non io dimenticherò te” (49:15). Che potente
incoraggiamento! Ma tanto più, che motivo di gioia e di riconoscenza verso il
Signore dovrebbe avere chi invece, nella propria vita, ha potuto godere le
cure, gli incoraggiamenti, l’influenza positiva di una famiglia cristiana.
I muri della casa di Potifar (Genesi 39:1-20)
Da schiavo a maggiordomo di un ufficiale del Faraone, la situazione di
Giuseppe si stava raddrizzando. Tutto quello che intraprendeva gli riusciva
bene; agli occhi umani poteva sembrare un caso, una fatalità, ma la Parola ci afferma che c’era
la mano di Dio dietro tutto ciò, e sono convinto che Giuseppe ne fosse
consapevole, così come lo era il suo padrone (39:3). Ma in questa situazione
positiva ecco subito una prova: le attenzioni ossessive della moglie del suo
padrone.
Quante scusanti avrebbe avuto Giuseppe! Giovane, inesperto, lontano da
una famiglia che lo aveva rifiutato, in un paese idolatra. Ma come si comporta
di fronte alla tentazione: rifiuta (v. 8), non accondiscende (v. 10), fugge (v.
12). Il suo obiettivo principale era quello di non disonorare Dio, di non
peccare contro di Lui. Giuseppe avrebbe potuto rimanere “imbrigliato” dal muro
della seduzione, ma è riuscito a fuggire a superare l’ostacolo posto sul suo
cammino. Il segreto per ottenere la vittoria è rimanere vicino alla Sorgente;
solo così si avrà una chiara visione dei pensieri di Dio. “Fuggi le passioni
giovanili e ricerca la giustizia, la fede…” (2 Timoteo 2:22). Sicuramente
questa scelta risoluta di Giuseppe ha glorificato Dio; lui era consapevole che
il suo errore sarebbe stato un peccato contro Dio, qualcosa che avrebbe
disonorato quel Dio che aveva imparato a conoscere. Questo comportamento ci
insegna che, quando commettiamo un peccato, offendiamo direttamente Dio, la sua
persona, la sua gloria. Giuseppe dice alla moglie di Potifar: “Come potrei fare
questo gran male e peccare contro Dio?” Il salmista poteva dire: “Ho conservato
la tua Parola nel mio cuore per non peccare contro di te” (Salmo 119:11). E’
ciò che ha fatto Giuseppe. Chiediamo al Signore di poter imitare un tale
esempio, in modo da non lasciarci “avvolgere dal peccato”, ma andare oltre l’ostacolo e rimanere vicini
alla Sorgente.
I muri della prigione (Genesi 39:21-23; 40; 41)
Essere puniti per un male che non si è commesso è profondamente
ingiusto. E che punizione ha subito Giuseppe! Un carcere sotterraneo (39:21)
non era certo confortevole come quelli moderni. Ma anche in questo caso
Giuseppe ha potuto sperimentare che Dio era con lui e che, anche in quella
situazione, faceva prosperare tutto ciò che intraprendeva. Quello che mi
colpisce particolarmente di questa vicenda è la capacità di Giuseppe di
interessarsi dei problemi degli altri, in un momento nel quale per lui sembrava
non esserci via d’uscita. Una notte, il coppiere e il panettiere, carcerati con
lui, fanno un sogno che li turba; Giuseppe comprende subito che sono turbati
(40:6), e domanda loro: “Perché oggi avete il viso così triste?” (40:7).
Quando siamo colpiti da una circostanza difficile, siamo talmente presi
da ciò che ci sta accadendo, che risulta pressoché impossibile interessarsi dei
problemi altrui, ancor meno di essere di aiuto.
La storia di Giuseppe ci fa vedere che tutto ciò è possibile se la pace
di Dio è nei nostri cuori e se sappiamo accettare con sottomissione le
circostanze per le quali il Signore vuole farci passare. E’ vero che nel
momento della sofferenza possiamo capire meglio chi sta soffrendo come noi.
L’apostolo Paolo poteva dire: “Benedetto sia il Dio e Padre del nostro
Signore Gesù Cristo, il Padre
misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra
afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da
Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque
afflizione” (2 Corinzi 1:3-4). Questa capacità e questa forza vengono da Dio,
non da una sorta di stoicismo.
Le interpretazioni date da Giuseppe ai suoi compagni di prigione, in
relazione ai loro sogni, sono una positiva e l’altra negativa. Giuseppe chiede
al coppiere, che sarebbe tornato in libertà, di ricordarsi di lui; certamente
si aspettava una riconoscenza immediata, ma purtroppo non fu così. Dovettero
passare altri due anni prima che il coppiere si ricordasse di “quel giovane
ebreo”.
Questa è un’altra lezione per noi: “la pazienza nell’afflizione”. Al
momento opportuno Dio ha saputo creare le circostanze, per mezzo delle quali il
suo servo è passato da carcerato a viceré di Egitto. “I miei pensieri non sono
i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie, dice il Signore” (Isaia
55:8). Raccontando la storia di Giuseppe, Stefano ha potuto dire che “Dio era
con lui e lo liberò da ogni sua tribolazione” (Atti 7:10). Camminando con
fedeltà e “dimorando in lui”, Dio ci darà la forza di superare anche il muro di
una prova così dura, ingiusta e umiliante.
I muri della casa di Faraone (Genesi 41)
Passano circa due anni; anni di pazienza e di sottomissione. Ma arriva
l’occasione preparata da Dio attraverso la quale Giuseppe viene liberato dai
muri della prigione. Faraone fa un sogno che nessuno riesce a spiegare, e il
coppiere che era stato in carcere con Giuseppe si ricorda di lui, e Giuseppe è
fatto chiamare.
E’ molto istruttivo per tutti noi notare come Giuseppe faccia subito
professione di umiltà dichiarando al Faraone: “Non sono io, ma sarà Dio che
darà al Faraone una risposta favorevole”.
L’interpretazione del sogno apre a Giuseppe le porte del potere, quasi
smisurato; il Faraone arriva a dire: “Tu avrai autorità su tutta la mia casa e
tutto il popolo ubbidirà ai tuoi ordini; per il trono soltanto io sarò più
grande di te”; e ancora: “Io ti do potere su tutto il paese d’Egitto” (v.
40-41).
Quando le cose vanno bene, quando il successo fa salire i gradini della
scala sociale, non solo per l’incredulo, ma anche per il credente è facile
cadere nell'orgoglio, nell'idea che tutto sia per nostro merito, come se Dio
non c’entrasse nulla con la nostra vita. Come facciamo presto a dimenticare
tutti i benefici che abbiamo ricevuto dalla sua mano! Per Giuseppe non è stato
così. Aveva trent'anni ed era nel pieno della vita, delle proprie capacità
psico-fisiche, ma ha sempre continuato a vivere vicino al suo Dio.
La casa del potere poteva diventare per Giuseppe un laccio veramente
pericoloso. E’ a questo punto della sua vita che si trova di nuovo di fronte i
propri fratelli, gli stessi che lo avevano venduto per un prezzo inferiore a
quello di uno schiavo; ma questa volta, diremmo noi, aveva “il coltello dalla
parte del manico”. Egli avrebbe potuto far prevalere sentimenti di rivalsa, di
vendetta, e invece ha messo in pratica le esortazioni contenute ad esempio
nella Lettera agli Efesini (4:31-32): “Via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e
ira e clamore e parola offensiva con ogni sorta di cattiveria! Siate invece
benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come
anche Dio vi ha perdonati in Cristo”. Che il Signore ci aiuti, per mezzo della
sua Parola che deve abitare in noi riccamente, a superare anche i muri
dell’orgoglio, del rancore e della vendetta.
Giuseppe ha mantenuto questo comportamento fino alla fine della sua
vita, anche quando i suoi fratelli pensavano, senza motivo, che egli avrebbe
cambiato atteggiamento nei loro confronti. Ma egli ha potuto dire: “‘Non
temete. Io provvederò al sostentamento per voi e i vostri figli’. Così li
confortò e parlò al loro cuore” (50:21).
Considerando la vita di Giuseppe, dalla giovinezza fino alla maturità,
possiamo veramente dire che è stato come “un albero piantato vicino a ruscelli,
il quale dà il suo frutto nella sua stagione e il cui fogliame non appassisce”
(Salmo 1:3). Come scrive Geremia: “Non si accorge quando viene la calura e il
suo fogliame rimane verde; nell'anno della siccità non è in affanno e non cessa
di portar frutto” (Geremia 17:8). Giuseppe ha saputo portare frutto per Dio in
ogni stagione della propria vita, anche quando è arrivata la siccità e la
calura.
Imitiamo questo esempio e chiediamo aiuto al Signore per portare del
frutto ad ogni età della nostra vita e in ogni circostanza, e perché i nostri
rami si stendano sempre “al di là del muro”.
C. Casarotta